“Che fa l’aria infinita, e quel profondo/Infinito seren? che vuol dir questa/Solitudine immensa?”. Le eterne domande del pastore errante leopardiano, sopraffatto dal misterioso incanto della volta stellata, sembrano risuonare e dare sostanza a uno dei brani più famosi e importanti della seconda metà del XX secolo: Atmosphères di Gyorgy Ligeti.
Il vasto e impenetrabile “muro” di suono che pervade la composizione del Maestro ungherese (nato a Dicsöszentmárton [ora Târnaveni, in Romania] il 28 maggio 1923 e morto a Vienna il 12 giugno 2006) sembra proprio rispecchiare l’immensità cosmica. Come negli spazi siderali, “isole” (ammassi? galassie?) sonore talvolta emergono e ravvivano (rendendolo ancor più enigmatico) il panorama musicale.
L’affresco ligetiano atterrisce e inquieta: l’uomo è niente più di un granello di sabbia in confronto a questa smisurata realtà. Il soggetto appare dunque in qualche modo fagocitato dalla massa, e anche la sua naturale tensione verso ciò che è “alto” (simboleggiata dal progressivo assottigliarsi verso l’acuto della fascia sonora iniziale) è destinata allo scacco: una voragine brulicante e insondabile si spalanca all’improvviso e inghiotte ogni speranza e ogni aspirazione.
È davvero questa l’ultima parola sull’uomo? Davvero siamo destinati semplicemente all’“abisso orrido” in cui tutto finisce in un estremo oblio di sé, del mondo e di tutto ciò che si è amato, desiderato, sperato? Davvero il nulla è la sola realtà che ci attende?
La risposta ligetiana è eloquente.
Se da un lato il meccanismo della composizione assume dimensioni talmente gigantesche da risultare in qualche modo disumano (la gelida consistenza degli agglomerati sonori è talvolta disarmante) dall’altro non possiamo non constatare l’emergere, non sappiamo quanto intenzionale, di plaghe di “cantabilità” che, per traslato, alludono alla ricerca di un senso (in questo caso melodico), di un ordine cosmico in cui anche l’uomo abbia un posto.
Di fronte a stratificazioni sonore in cui la densità, il timbro strumentale, la durata e l’intensità sembrano gli unici metri di misura (quasi fossero parametri astronomici) anche piccoli lacerti di melodia aprono una breccia, come lo sbocciare di una possibilità, di un’opzione fino ad ora trascurata. Ed è proprio a questo livello che si colloca la peculiare riflessione ligetiana.
Il fascino sirenico del cosmo, sembra dirci il compositore, risiede sia nelle sue dimensioni gigantesche (tanto più grandi di noi eppur così piccole rispetto agli insondabili desideri dell’animo umano) sia nel suo essere l’immagine più pertinente (ancorché approssimata) di quel mistero che avvolge da ogni lato la vita, ogni gesto, ogni circostanza, ogni desiderio.
Nel dipingere il conturbante scenario di un universo senza l’uomo (così simile per certi versi a quel mondo indifferente descritto ancora dal Leopardi delle Operette morali in cui la Terra, ormai totalmente priva del genere umano, “non sente che le manchi nulla”) Ligeti non può però evitare che in chi ascolta si ponga la domanda sul perché, sul senso ultimo di una architettura cosmica tanto attraente (per chi sia davvero assetato di conoscenza) quanto (apparentemente) ingannevole.
E però proprio l’intelligenza formale della costruzione e la coerenza del contenuto che porta l’Autore a un’apertura ultima (il brano non termina, semplicemente si sottrae alla nostra percezione acustica, quasi continuando – ormai inudibile – in altri spazi) per cui sembra che l’estrema parola sia, come in ogni seria ricerca, la possibilità che qualcosa di imprevedibile accada, che qualcosa di eccedente la nostra misura entri in campo e spalanchi la speranza. È un dito puntato verso un oltre di cui vorremmo sapere più di quanto osiamo confessare.
Così, inaspettatamente, alla fine Ligeti si incontra col grande poeta Paar Lagerkvist e con lui si (e ci) pone la domanda che può aprire una breccia in ogni forma di nichilismo: “Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre; ma perché la voce esiste?”
LIGETI: Atmosphères (1961)