Mai come in questo periodo la definizione di “economia dell’incertezza” calza a pennello, soprattutto per le prospettive di quelle che venivano solennemente definite le società industrializzate. I fatti di queste ultime settimane dimostrano ancora una volta che le regioni più ricche di petrolio sono anche quelle più instabili politicamente e in cui le tensioni sociali si moltiplicano quasi senza preavviso. E l’Occidente non può che guardare con preoccupazione ai possibili sviluppi di una situazione che non sembra promettere nulla di positivo.
I paesi europei, e l’Italia molto più degli altri, hanno infatti affidato alle fonti fossili che possiedono solo in piccola parte (petrolio, gas naturale e in qualche caso anche carbone) la soddisfazione dei propri bisogni energetici. L’Italia molto più degli altri, perché il 90% delle fonti italiane di energia proviene dall’estero con una dipendenza che crea un doppio ordine di problemi: da una parte per il rischio di una scarsità delle forniture (basti pensare che proviene dalla Libia un quarto dei consumi italiani di petrolio), ma dall’altra parte soprattutto per i maggiori oneri che derivano dai rincari del greggio. Basti pensare che in anno le quotazioni del petrolio sui mercati mondiali sono praticamente raddoppiate: erano a poco più di 60 dollari al barile nella primavera del 2010, sono arrivate a sfiorare i 120 dollari all’inizio di marzo 2011 (e quando leggerete questo articolo probabilmente saranno ancora più alte).
Sarebbe molto utile, almeno dal punto di vista pedagogico, fare un chiaro processo alle scelte passate. In questa prospettiva andrebbe fatto leggere nelle scuole il saggio di Alberto Clò, uno dei maggiori esperti italiani di energia, “Si fa presto a dire nucleare” (Ed. Il Mulino, pagg. 184, € 14). Vi si possono scoprire le manovre dei grandi gruppi petroliferi e la sudditanza della politica, si possono rivedere le guerre personali e i conflitti di interesse, si può toccare con mano la superficialità delle scelte che hanno portato prima al soffocamento dell’industria e dei centri di ricerca che si erano dedicati al nucleare con risultati tutt’altro che irrilevanti, poi all’ostracismo completo dopo il referendum del 1987.
E ora appare realistica la scelta di tornare a puntare sull’energia nucleare? Da un punto di vista logico certamente sì per almeno cinque ordini di motivi: 1) la prospettiva di nuovi anche sensibili rincari del prezzo del petrolio; 2) le possibili incertezze sulla regolarità dei rifornimenti; 3) la necessità di ridurre le emissioni inquinanti che provengono innanzitutto dall’uso dei combustibili fossili; 4) l’utilità di diversificare al massimo le fonti di energia; 5) l’impossibilità concreta di sfruttare oltre un certo limite le fonti rinnovabili, il cui sviluppo resta comunque essenziale anche se necessariamente complementare.
Da un punto di vista “politico” tuttavia i problemi si moltiplicano. Il nucleare richiede forti investimenti e con obiettivi di lungo termine, richiede una forte condivisione delle scelte di localizzazione delle centrali e dei depositi di scorie radioattive, richiede una sostanziale fiducia nella capacità del Paese di affrontare con forte coesione sociale questa strategia. “Una strategia – scrive Clò – che dovrebbe essere condivisa dagli opposti schieramenti politici onde evitare che ciò che una parte progetta e avvia sia destinata ad essere distrutta dall’altra parte, come dimostra la stucchevole vicenda del Ponte sullo stretto di Messina”.
In pratica: in questa fase l’Italia può ragionevolmente pensare al nucleare? Purtroppo probabilmente no. Anche se qualche passo bipartisan è stato fatto: come la nomina di Umberto Veronesi a presidente dell’Agenzia per la sicurezza del nucleare. Ma il Governo va avanti a piccoli passi e l’opposizione cerca di tenere il più possibile lontana una scelta che sarebbe un ennesimo motivo di divisione. Eppure quello dell’energia è un tema strettamente legato alla crescita economica e alla sicurezza nazionale: sarebbe una prova di maturità cercare in tutti i modi di arrivare a una scelta condivisa. Una scelta lontana, con una politica che parla d’altro.