Lontano da casa di David Kherdian è un bel libro. È scritto bene e ha uno sguardo sul genocidio degli Armeni tutto nuovo.
Kherdian racconta la deportazione del popolo armeno attraverso gli occhi di Veron, una bambina. Nel corso della deportazione nel deserto arabico essa vedrà sterminata la propria famiglia e rimarrà sola con zia Lusuper, la quale si prenderà cura di lei e l’amerà come una figlia. Questo sarà l’ubi consistam per Veron, la verità della sua storia. L’odissea di Veron è un attraversamento del male della storia con accanto una presenza umana, che la porterà a salvarsi e che rappresenterà la traccia di un senso, di un arcano mistero, lo stesso che permette agli Armeni di non smarrire da secoli identità e unità in situazioni umanamente impossibili e infauste, come quella del genocidio.
Ad esso sono dedicati i capitoli centrali del libro, che portano il lettore nelle pieghe di uno dei fatti più tragici della storia contemporanea. Se fino a ieri l’autorità sopranazionale islamica del sultano del vecchio Impero Ottomano aveva garantito la pacifica e multietnica convivenza dei popoli, ora con l’imminente dissoluzione dell’Impero si va affermando un’ideologia, il turchismo, che predica il dominio generalizzato di una sola razza, la turca, su tutto il territorio.
In tale progetto di nazionalizzazione non era prevista l’esistenza di una nazione armena di lingua, razza, religione e usanze cristiane. Con strategia meticolosa e determinazione puntuale, il governo turco pianificò fino al dettaglio la deportazione di oltre un milione di armeni, votandoli alla morte, perché non esistesse più un solo armeno in territorio turco. Vennero studiati i punti geografici di raccolta delle diverse “quote” di armeni dislocati sul territorio: “La deportazione iniziò di domenica: ci furono concessi tre giorni per raccogliere le nostre cose e partire verso Konya, l’antica capitale dei selgiuchidi e città fortificata. Konya era il centro di smistamento per gli armeni delle province orientali”.
La destinazione dei deportati verso il deserto arabico era solo un pretesto per poi procedere allo sterminio. Erano state previste la spoliazione preventiva di beni, case e proprietà, la leva preventiva degli uomini abili alla guerra, lo sterminio itinerante per sfinimento e gli assalti dei Curdi delle montagne: “I curdi e i contadini armati scendono dai loro nascondigli per assalire e saccheggiare le carovane indifese e violentare le donne”.
Alla fine del libro,Veron ricostruisce la propria esistenza all’interno di un piccolo nucleo, un resto di armeni, a partire dal quale vive un nuovo inizio. Non quello di un mondo sepolto, ma una vita nuova.
La trama che tiene uniti i diversi fili narrativi del libro di Kherdian è lo sguardo di Veron, che da bambina si fa donna. Il punto di vista che sovrasta gli eventi è quel suo sguardo candido e vero, che non cede all’odio verso i turchi, mai, né soprattutto all’autocommiserazione, felici condizioni che permettono all’autore di superare a piè pari ogni tentazione di lettura politica o di denuncia viscerale del genocidio. La memoria storica è filtrata da una scrittura che non porta ferite aperte; ma cicatrici, sì.
Non mancano all’interno del libro i riferimenti a coordinate storico-politiche che riscattano il genocidio armeno da quell’interpretazione di episodio marginale nello scacchiere europeo dell’epoca, relegando la questione armena a un ruolo di secondo piano e subordinato alle alleanze della politica coloniale e imperialista del tempo.
Il padre di Veron, che seguirà la sorte di tutti i suoi compatrioti, intuisce il grande gioco della politica che si svolge sulla propria testa. I nazionalisti turchi in tre ondate successive di eccidi (1895, 1909, 1915) hanno tentato di risolvere quella questioneperché sognavano – una volta turchizzato e etnicamente ripulito il paese – di realizzare la grande Turchia con l’aiuto del capitale tedesco. Non a caso la Germania di Guglielmo II era la nazione più ricca e industrializzata del mondo e la politica imperialista tedesca sognava la propria espansione nei Balcani e, attraverso i Balcani, nel Medio oriente.
Gli armeni più avvertiti lo capirono, nel senso che capirono i progetti di Enver e Taalat pascià, responsabili del massacro, che intendevano sostituire la ricchezza e l’operosità del popolo armeno con l’alleato tedesco e il suo efficiente apparato produttivo militare e nazionalista. “La ferrovia Istanbul-Baghdad ormai tutti la chiamano Berlino-Baghdad”, dirà il nonno di Veron in una conversazione.
Anche gli interessi economici e le rivalità commerciali sono implicati in questo scenario storico politico, rivissuto con gli occhi di una bambina. Unire il Danubio alla ferrovia costruita con capitale tedesco, Istanbul-Baghdad, nel Golfo Persico, voleva dire aprire nuovi mercati, commerciare su tre grandi aree: Europa, Asia e Medio Oriente. Non direttamente, certo, il genocidio armeno va collegato a queste politiche d’espansione coloniale, ma alle ideologie pangermaniche piuttosto che panslave o panturche che le hanno rese pensabili e perseguibili.
Ma il libro di Kherdian è innanzitutto un affresco della vita quotidiana di un popolo, è un documento prezioso anche perché ne ricostruisce istanti e gesti: i giochi che facevano i bambini, il vestirsi, passare le ore in famiglia o tra i vicini, le feste, la musica o gli strumenti, i canti, i piatti tipici, il rito dei fidanzamenti. Si ha la percezione che un certo mondo sia morto e sepolto, leggendo questo libro. Morta e sepolta sembra anche quella fede semplice e profonda, forte e saggia sedimentata dei secoli nella memoria del popolo armeno, popolo che c’è sempre ma che è stato in qualche modo vinto ed espulso dalla propria “casa” o terra.
Invece quel popolo c’è, è vivo, è reperibile ancora nello spazio e nel tempo di oggi, del presente. L’“armenità” non è perduta, ma occorre riscoprire la semplicità di Veron e di ciò che i suoi occhi hanno visto e udito: “Varcata la soglia ci salutavamo tutti così: ‘Cristo è risuscitato dai morti’ e si rispondeva ‘Benedetta sia la resurrezione di Cristo… e si baciavano le mani degli anziani”. (…) Amavo il coro. Le voci dei coristi: avevo la sensazione che Dio Padre, come lo chiamavamo, fosse presente ovunque ma soprattutto nelle loro voci…”.
E ancora: “Si diceva che fossero le cicogne a portare i bambini ma io non ero d’accordo: secondo me, avevano tutti origine direttamente da Dio Padre. Non pensavo di esser nata dai miei genitori, ero convinta di appartenere a Dio e Lui apparteneva a me”.
(Pippo Emmolo)