Richard Schickel, parlandone a suo tempo sulle colonne di “Life”, l’ha descritto come «il primo dei dirty westerns». Martin Scorsese l’ha indicata come una delle pellicole che più l’ha influenzato come regista. John Woo ha detto che «[i] suoi ralenti e i suoi montaggi paralleli agiscono come della musica. C’è Michelangelo nella struttura delle sue inquadrature. Questo film possiede ai miei occhi la grandezza di una tragedia greca».
Resta il fatto che, dopo la prima visione, anche il semplice spettatore sogna di andarsene pure lui tre due ali di gente, a fronte di una decisione ormai presa e irrevocabile, sulle parole e sulle note de La golondrina, il tradizionale “arrivederci” messicano: «Tutti sogniamo di essere di nuovo bambini. Anche i peggiori di noi. Forse i peggiori più di tutti».
Nel dicembre di quarant’anni fa – in mezzo agli aspri conflitti del cosiddetto “autunno caldo” e alla ferita appena aperta di Piazza Fontana – arrivava nelle sale italiane Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969), uno dei punti di snodo – nella storia della settima arte – nel modo di fare (e pensare) il cinema come “rappresentazione”, non solo per i 3643 takes che lo compongono.
Un’opera che è considerata da molta critica il capolavoro del suo regista, quel Sam Peckinpah di cui in questi giorni ricorre anche il quarto di secolo dalla scomparsa, essendosene andato improvvisamente – stroncato da un attacco cardiaco dopo una vita fatta (anche) di abusi di alcol, fumo e cocaina – il 28 dicembre 1984.
Come confermato da James Coburn, apprezzato co-protagonista in più di una delle sue quattordici pellicole: «Uno che era un genio per tre ore al giorno. Almeno per tre ore al giorno: qualche volta anche più, dipende da quanto stava bevendo». Scrivere di questo autore è scrivere anche di violenza cinematografica, di brutalità come descritta dal grande schermo. Un tema di non poca rilevanza ma che, solo, non rende certo giustizia alla sua opera.
Almeno a fronte di un’epoca e di una generazione di appassionati che hanno conosciuto – in sala o in televisione – solo il cinema di suoi epigoni quali Oliver Stone, John Woo, Quentin Tarantino e Michael Mann. Un “mucchio” nel quale solo quest’ultimo, alla luce di una solidissima continuità autoriale, mostra di guardare con maggiore fedeltà e avere inteso a fondo il lavoro del predecessore: pensiamo alle più che convincenti prove fornite con Heat – La sfida (Heat, 1995), Collateral (2004), Miami Vice (2006) e il recentissimo Nemico pubblico (Public Enemies, 2009).
Per spiegarci meglio ci rifacciamo alla sequenza del risveglio di Pike Bishop (William Holden), dopo una notte trascorsa con una ragazzina, nel bordello dove è finito con gli altri membri del “wild bunch”: il rivestirsi, il pianto del bambino, la ragazza che si rinfresca, l’ultimo sorso di whisky, il lamento della prostituta della stanza accanto e, a un certo punto, il vedere qualcosa emergere da chissà dove, un lampo che gli balena negli occhi: «Let’s go», «Why not?» gli fa eco Lyle Gorch (Warren Oates) mentre a Dutch Engstrom (Ernest Borgnine) basta un sorriso di intesa.
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“Sguardo”, quello di Pike, che di recente abbiamo rivisto sul grande schermo almeno un paio di volte, in occasione del climax di due delle più belle pellicole dell’anno: Gran Torino (2008, Clint Eastwood) e The Wrestler (2008, Darren Aronofsky). Due film che, guarda caso, hanno raccolto intorno a loro sia pubblico che critica, evidentemente perché chi vi si è imbattuto ha sentito un respiro “altro” rispetto a tanta produzione contemporanea hollywoodiana e non, massacri di Tarantino e “balletti” di Woo compresi.
Proprio con riferimento a quest’ultimo, che la cita a suo continuo modello, si pensi alla sparatoria finale che si svolge ad Agua Verde. Ormai al termine del film, il regista e la sua troupe erano a corto di costumi – giunsero al punto di cucirli e ricucirli – e non sapevano più come raccogliere le munizioni. Quando fu annunciata la fine delle riprese, anche se a quel tempo faceva mostra di essere molto virile, Peckinpah crollò davanti a tutti: dopo gli applausi, si scansò dal gruppo, si sedette su di una pietra e pianse tutte le lacrime che poteva per un buon quarto d’ora.
Ecco come lo stesso protagonista ricorda quei giorni: «Per realizzare la battaglia finale de Il mucchio selvaggio ci ho messo tre mesi di preparativi, disegnando ogni cosa sino ai minimi particolari; ma una volta arrivato sul set ho cambiato radicalmente, girando in appena nove giorni soltanto perché il lavoro di preparazione era stato tanto accurato. Tutto è stato organizzato in funzione degli attori e della loro posizione nell’inquadratura; io stesso mi mettevo al posto di ciascun personaggio prima di girare le sequenze definitive, cosicché ho perso nove chili in questi nove giorni! […]
E tengo molto anche alle sovrimpressioni finali, che invece mi hanno rimproverato, perché concludendo sulle immagini dei killer che vivono e ridono tranquillamente, io ricordo allo spettatore – che vorrebbe dimenticarlo – che si tratta di gente simile a lui».
Forse amate Stone, forse stravedete per Woo, forse impazzite per Tarantino, forse adorate Mann. Tutto giusto: questo è il cinema. Ma se non l’avete ancora fatto, tornate al menù principale e, alla voce “Peckinpah”, selezionate Il mucchio selvaggio. Avrete delle belle sorprese, oltre ad apprezzare decisamente meglio i vostri beniamini.
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