Tutti presi dai problemi giudiziari di Silvio Berlusconi, gli osservatori delle cose politiche hanno lasciato in secondo piano le mosse di Gianfranco Fini in questo frangente. Il cui stile, per la verità, non è cambiato rispetto agli ultimi mesi: smarcamento su una serie di temi-chiave per il centrodestra (soprattutto quelli relativi all’immigrazione e alla bioetica), silenzio su altre questioni altrettanto importanti, se non di più.
Il presidente della Camera, per esempio, non ha espresso solidarietà al premier nelle schermaglie con i pm, ma si è limitato a una distaccata posizione istituzionale (processo breve no, riforma più ampia della giustizia sì); oppure si è opposto a corsie preferenziali o ipotesi di fiducia sulla legge finanziaria.
La presa di distanza di Fini ormai non fa più notizia. Quello che manca è una «interpretazione autentica» della sua strategia.
A che cosa punta il co-fondatore del Pdl? Lui non si esprime. La sua ultima intervista risale addirittura al 10 marzo e non fu concessa a un giornale italiano, ma allo spagnolo El Paìs che la titolò «Non sono il delfino di Berlusconi». L’apparizione finiana alla festa del Pdl di Milano fu quella di uno straniero in casa sua. I suoi luogotenenti giocano di sponda ma si guardano bene dallo scoprire le carte del loro leader offrendo chiavi di lettura esplicite.
Finora, alla domanda su dove voglia arrivare Fini, le risposte più accreditate sono tre, non necessariamente in alternativa tra loro.
Primo: ispirato da Paolo Mieli, il presidente della Camera vuole costruire un centrodestra opposto a quello targato Berlusconi nella prospettiva di ereditarne i voti e la leadership del partito. Per questo sta costruendo un’immagine personale autonoma, laicista, istituzionale, gradita a certi settori dell’intellighenzia che però hanno dimostrato (ad esempio nella campagna referendaria sulla fecondazione) di avere scarso appoggio popolare.
Secondo: Fini punta a far saltare i nervi alla Lega Nord per spezzare l’asse Berlusconi-Bossi. Il presidente della Camera è convinto che il premier lo scavalchi sistematicamente preferendo il rapporto con il leader leghista, e intende prendersi il posto che spetta al numero due del partito. Si spiegherebbe così l’insistenza con cui Fini ritorna sui temi dell’immigrazione, della cittadinanza e del voto agli stranieri, giungendo a sdoganare il turpiloquio davanti a bambini di scuola elementare. Anche questi sono argomenti cari a una parte dell’intellighenzia ma con scarso «appeal» nell’elettorato del centrodestra.
L’ultimo scenario è più istituzionale. Giudicando imminente il tramonto dell’era Berlusconi, Fini si schiera al fianco di Giorgio Napolitano con l’obiettivo di traslocare da Montecitorio a Palazzo Chigi. Conoscendo infatti la ritrosia del Quirinale all’ipotesi di sciogliere immediatamente le Camere in caso di crisi di governo, il presidente della Camera diventerebbe il candidato numero uno a guidare un nuovo esecutivo, non necessariamente istituzionale.
Fini scommette sul fatto che Berlusconi non voglia mandare tutto all’aria rompendo con il Colle, sfasciando il neonato Pdl e trasformando per l’ennesima volta il voto politico in un referendum pro o contro di lui: un voto che stavolta potrebbe avere esiti imprevedibili.
Qualunque dei tre sia lo scenario più vicino alla strategia di Fini, resta un fatto: l’inquilino di Montecitorio ha scelto di ballare da solo. La solitudine di Fini e del suo drappello di fedelissimi è sempre più evidente. Nessuno pensa più che egli intenda coprire l’ala laicista del Pdl secondo una strategia concordata. Con il Cavaliere il tempo degli accordi è finito, l’obiettivo di Fini è costruirgli un’alternativa.