Giovedì è stata resa nota la procedura da seguire per evitare di pagare il canone Rai nella bolletta elettrica quando non si possiede un apparecchio televisivo. L’attesissima novità ci ricorda che da quest’anno l’imposta sarà inserita nel conto elettrico e che sarà molto più complicato sfuggire a una delle tasse più odiate dagli italiani. Secondo una ricerca pubblicata dall’ufficio studi di Mediobanca a fine dicembre, l’inserimento del canone Rai in bolletta si tradurrà in ricavi addizionali per la televisione statale di circa 420 milioni di euro all’anno. Gli effetti, distorsivi, sul mercato televisivo italiano sono evidenti se un competitor si ritrova improvvisamente con quasi mezzo miliardo di euro di risorse in più tutti gli anni.
Questo potenziale mega effetto distorsivo sul mercato pubblicitario e televisivo italiano avviene proprio quando il principale competitor della Rai, Mediaset, si ritrova coinvolto in una serie di rumour decisamente esplosivi. La conquista di Telecom Italia da parte di Bolloré potrebbe essere il preludio, o contestuale, a uno sbarco in grande stile sul mercato televisivo. I rumour vanno dalla “semplice” alleanza con Mediaset Premium fino all’acquisizione di tutta Mediaset, ma data la dimensione di Vivendi, che vale 6/7 volte Mediaset, e data la volontà del gruppo francese di diventare una “media company” leader nel mercato europeo l’ultima possibilità appare probabile come la prima.
In ogni caso è impensabile che Vivendi non abbia già fatto alcune valutazioni sul mercato televisivo italiano. Il declino di Mediaset che prima della crisi del 2008 valeva sul mercato più del doppio rispetto ai valori attuali può essere spiegato con tre cause. La prima, e più banale, è la crisi economica italiana che si è riflessa ovviamente sulla capacità/volontà delle imprese di investire sulla pubblicità e sulla “appetibilità” del consumatore italiano. La seconda è il successo di Sky che si è accaparrata la parte migliore del mercato, i contenuti live, e molto probabilmente la fascia migliore dei consumatori, quelli abbastanza ricchi da potersi permettere di buttare via qualche centinaio di euro all’anno in televisione. Infine, la politica di dumping sui prezzi della pubblicità della Rai. Quest’ultimo fattore è sicuramente quello di cui si è parlato di meno. L’accusa di dumping sui prezzi è stata fatta a più riprese da un imprenditore “puro” del settore media come Cairo, che ha denunciato gli effetti devastanti sia sul settore televisivo che su quello dei giornali.
Cerchiamo di spiegare meglio questa dinamica. Normalmente in un mercato fatto di pochi o pochissimi operatori privati, pochi come nel caso della televisione italiana, si assiste a un comportamento opposto. Nonostante la crisi e la diminuzione della domanda, in questo caso di pubblicità, gli operatori non cominciano una guerra di prezzo, ma anzi più o meno tacitamente si mettono d’accordo e tengono duro sui prezzi. È molto più redditizio e facile produrre un po’ di meno, ma con gli stessi margini piuttosto che produrre meno, dove inevitabilmente si finisce se tutto il settore è in crisi, con i margini schiantati dopo lunghe e inutili guerre sui prezzi. È meglio vendere nove pubblicità e non dieci a un prezzo di 100 che provare a venderne sempre dieci, per poi finire col venderne nove, a un prezzo di 70. Il mercato televisivo italiano fatto di 3-4 operatori avrebbe avuto tutte le caratteristiche per mostrare il comportamento che ci si sarebbe aspettato data la natura di oligopolio. La Rai, invece, non ha bisogno di adottare un comportamento economicamente razionale perché vive di canone, che tra l’altro non scende nonostante la crisi; può quindi provare a guadagnare quote di mercato, abbassando i prezzi, senza doversi preoccupare degli effetti. Il risultato è quindi un settore in difficoltà, per la crisi economica, in cui i prezzi sono scesi molto.
Cosa succede se il canone sale? In teoria l’aumento del canone e dei ricavi per la sola Rai dovrebbe acuire e prolungare il fenomeno di dumping sui prezzi. La Rai ha ancora meno bisogno di tenere in alto i prezzi e può fare il pieno di pubblicità a un prezzo a cui gli altri non riescono ad arrivare; è esattamente come competere con un’azienda cinese sussidiata dallo Stato. Le società europee non riusciranno mai a fare i prezzi della società cinese e se riescono, perché obbligate, vanno in crisi nera. Quello che sta accadendo però è che il settore privato, di fronte al regalone fatto dal governo alla Rai, comincia a chiedere una regolamentazione. Sia esponenti di Mediaset che Cairo hanno in sostanza proposto che alla Rai vengano posti dei limiti sulla pubblicità privata.
È una richiesta di grandissimo buon senso, che oltretutto ha la forza di potere essere guardata molto positivamente in sede europea. Una società statale non può fare concorrenza illimitata ai privati con i soldi delle tasse; la Bbc non fa un secondo di pubblicità. Una normalizzazione del mercato televisivo italiano, graduale ma inesorabile, che faccia diventare la Rai una televisione statale “più normale” e che passa per limiti stringenti alla quantità di pubblicità (come in Francia e in Germania) è la premessa per rilanciare le società private. Oggi di certe cose si parla a fatica perché Mediaset è di Berlusconi, ma una Mediaset europea, e di Bolloré, avrebbe ogni titolo per poter chiedere e ottenere il ridimensionamento della Rai, via limiti alla pubblicità, che da molti anni fa le stesse cose dei privati con i soldi pubblici e con una quantità mostruosa di canali.
Nell’ennesimo harakiri, l’Italia normalizza il settore per una società straniera che è diventata grande anche perché a casa sua, in Francia, il settore era già “normalizzato”; siamo sicuri che su questa normalizzazione che appare già in vista Bolloré ci scommetta. L’alternativa è pensare che qualcuno voglia davvero entrare, pagando, in un Paese in crisi nera e in un settore in cui uno dei due competitor corre sempre partendo 50 metri più avanti e l’altro ha tutta la forza di un gruppo internazionale e di 20 anni di pay-tv.