Horror d’autore – Ricorre in questi giorni il trentennale dell’uscita di Shining di Stanley Kubrick. Girato tra il maggio 1978 e l’aprile 1979 sul monte Hood nell’Oregon (Usa), per gli esterni, e in Gran Bretagna per gli interni, per intero ricostruiti in studio, il film uscì infatti nelle sale nel maggio del 1980.
Il soggetto – tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King – narra una storia semplice, con pochi personaggi in una situazione stilizzata, che si svolge tutta o quasi nello stesso ambiente, quindi vicina al rispetto della legge aristotelica delle tre unità: di tempo, di luogo, di azione.
Lo scrittore Jack Torrance (Nicholson) – con la moglie e il figlio Danny al seguito – viene incaricato di fare il custode invernale in un deserto hotel di montagna, l’Overlook, dove anni prima un altro custode è impazzito sterminando la famiglia. Il piccolo Danny è dotato di poteri extrasensoriali, ha delle visioni sul passato e sul futuro, lo “shining” appunto (infelicemente reso col termine “luccicanza” nel doppiaggio italiano; trattandosi di cinema, sarebbe stato più adatto il termine “veggenza”). Queste alla fine lo aiuteranno a salvare se stesso e la madre quando anche il padre Jack impazzirà e tenterà di ucciderli.
Storia semplice, si è detto. Ma come spesso accade quando si tratta di grandi registi, la storia volutamente semplice non è – se non a un livello superficiale – il testo del film, ma il pre-testo per fare dell’altro. Che nel caso di Stanley Kubrick, autentico genio della settima arte, è un qualcosa di molto vicino al cinema assoluto, cioè ab-soluto in senso etimologico: non-legato, sciolto, a nulla subordinato (se non a se stesso). È semplicemente un horror d’autore.
Note di stile – «Il cinema opera a un livello più vicino a quello della musica o della pittura che a quello della scrittura, i film offrono l’opportunità di veicolare concetti complessi e idee astratte senza servirsi in modo tradizionale della parola» sosteneva Kubrick a proposito di 2001: Odissea nello spazio (1968), idea che può essere estesa a tutto il suo cinema.
Per questo Shining è una sorta di unico, lungo e angusto labirinto visivo. La metafora è perfino ovvia, resa dal regista con la solita geometrica precisione. Man mano che il film procede, l’Overlook Hotel diviene sempre più una sorta di immenso, intricato cervello umano. Lì, dentro i suoi saloni e corridoi, Jack Torrance incontra i fantasmi che lo esortano al crimine. E sempre lì, negli stessi meandri, suo figlio Danny ha gli “shining”, durante i quali vede e rivede le figlie del vecchio custode fatte a pezzi, vede e rivede un lago di sangue sgorgare dalle pareti e inondare il corridoio fino a coprire tutto, anche lo sguardo della macchina da presa (e il nostro).
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Il Kubrick di Shining è uno dei più ispirati di sempre. Le carrellate a precedere o a seguire i personaggi nei meandri dell’Overlook Hotel ricordano quelle sul colonnello Dax (Kirk Douglas) che avanza nelle trincee piene di fumo e soldati in Orizzonti di gloria (1957): stessa è la forza visiva, simile l’impatto emotivo. Indimenticabili, in particolare, quelle a pedinare il piccolo Danny che pedala sul triciclo nei corridoi dell’hotel.
Con questo film Kubrick porta il genere a una riflessione visivo/cinematografica sul male e sulle sue radici, che qui affondano nel nostro inconscio. Ne risulta un efficacissimo esercizio visivo di pura tensione e inquietudine, risultando a esse funzionali anche la sinistra colorazione degli ambienti e i motivi geometrici (labirinto) di tappeti e pareti.
Il film ha in sé anche, in veste remota, il tema del gioco del (o sul) doppio e delle (sulle) simmetrie speculari (sempre a coppie di due le luci nelle stanze dell’hotel), che meglio sarà sviluppato dal regista nella sua ultima fatica, Eyes Wide Shut (1999).
In ultima analisi siamo di fronte a una sorta di lezione sullo sguardo cinematografico, sulla sua intrinseca forza e sul suo innato connotato voyeuristico: la tensione tipica del genere nasce per lo più dallo sguardo (cinematografico) che Kubrick mette sulle situazioni narrate, sul come egli ci mostri, ci faccia guardare cose e persone di per sé neutre o quasi.
Si noti anche la scelta, inusuale per un film degli anni Ottanta, di girare con il frame in formato 4/3, cioè quello tra i disponibili che più si avvicina al quadrato: infatti un labirinto sta meglio in un quadrato che in un rettangolo.
No remake, please – Il genere horror classico, e di più quello moderno nelle sue svariate contaminazioni col thriller e con la fantascienza, è forse quello da cui maggiormente si è attinto per la produzione di sequel e/o remake (si ricordi, ad esempio, la saga dei numerosi Alien e Halloween, sèguiti per lo più sgangherati dei bellissimi film originali firmati, rispettivamente, da R. Scott e J. Carpenter). La ragione risiede certamente nell’innato fascino attrattivo che il genere esercita sullo spettatore.
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Di Shining, a oggi, esiste solo un remake improprio: una serie televisiva a puntate uscita in Usa nel 1997 col patrocinio dello stesso King, desideroso di un qualcosa di più fedele al suo testo letterario. Bontà sua. Da parte nostra, speriamo che a nessuno venga mai la balzana idea di realizzare un remake vero e proprio del capolavoro di Kubrick (oppure, peggio ancora, un sequel): risulterebbe solo d’imbarazzo a tutti, per le ragioni suddette e innumerevoli altre.
Tra queste risiede, certamente, il fatto che non esiste oggi un attore in grado di interpretare il personaggio di Jack Torrance con la stessa istrionica consapevolezza del Nicholson di allora. I grandi film rimangono tali, nella storia come nella nostra memoria, anche perché confezionati in esemplare unico.