Il cantiere della bad bank che “liberi gli istituti dalla zavorra delle sofferenze” è aperto, anzi: molto avanzato, ha confermato ieri in un’intervista a Repubblica il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Fabio Panetta. Detto fra virgolette dall’alternate del governatore Ignazio Visco nel consiglio direttivo della Bce è più di un ballon d’essai: soprattutto a quattro giorni dall’atteso intervento di Visco al convegno Forex, programmaticamente dedicato all’agenda bancaria. Panetta, inoltre, è il membro italiano del supervising board presieduto dalla francese Daniele Nouy, cioè la stanza dei bottoni della nuova Unione bancaria.
Le probabilità di un preannuncio imminente, dunque, sembrano salire. Ma con esse anche gli interrogativi sulla struttura tecnica e “politica” della manovra di stabilizzazione e rilancio del sistema bancario italiano. La costruzione di una “società per la gestione degli attivi” (Sga) non è un mistero alchemico: solo una ventina d’anni fa ne fu creata una per lo scorporo di ingenti crediti inesigibili del gruppo Banco di Napoli-Isveimer. Il nodo è sempre chi e come si accollerà impegni e oneri di spalmare nel tempo, gestire e alla fine contabilizzare le perdite delle sofferenze in uscita dai bilanci bancari. In concreto: quanto di questo “buco” rimarrà a carico delle banche (e quindi dei loro azionisti) e quanto sarà invece pagato dallo Stato, cioè dal contribuente: in nome della stabilità del sistema bancario, cioè dei depositi dei cittadini.
Una sola bad bank “di sistema”? Più bad bank, in teoria fino a immaginarne una per banca interessata? E questi veicoli saranno controllati da azionisti nazionali (anzitutto la Cassa depositi e prestiti) oppure saranno aperti a investitori esteri (com’è stato in Spagna, dov’è intervenuto il gestore-gigante Blackstone)?
Da qualche giorno – da quando in particolare il governo ha calato il decreto sulla trasformazione obbligatoria delle Popolari in Spa – hanno preso a circolare rumor meno tecnici. Già quando l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti varò gli omonimi “bond”, nel 2009, si ventilò che il sostegno pubblico al patrimonio di banche colpite dalla crisi avrebbe potuto essere subordinato all’uscita di scena dei vertici delle banche che vi avessero fatto ricorso (in concreto è stato il caso del Montepaschi e alcune Popolari, quest’ultime poi velocemente rientrate dal prestito pubblico). Quindi, presidenti e amministratori delegati di banche infine “salvate” dalla bad bank (ed è improbabile che vi siano i due campioni Intesa Sanpaolo e UniCredit) dovrebbero mettere in conto l’abbandono. Una “rottamazione” che non appare più fantascientifica vista la determinazione con la quale Renzi ha marciato frontalmente contro le Popolari.
Il costo dello smaltimento di “rifiuti tossici” della crisi finanziaria (180 miliardi lordi in tutto a fine dicembre) sarebbe quindi condiviso fra il fisco e le posizioni personali dei banchieri: pesando invece presumibilmente meno sulle aspettative del mercato sui titoli interessati (soprattutto sulle posizioni degli investitori stabili italiani e delle grandi istituzioni estere) e guardando anzitutto alle probabili esigenze di ricapitalizzazioni di alcuni istituti.
È in questa cornice, comunque, che potrebbero maturare anche forme di compromesso sul decreto Popolari: con un possibile allungamento oltre i 18 mesi del termine fissato per la trasformazione obbligata in Spa e quindi maggior respiro per mettere in cantiere aggregazioni. Nel frattempo l’AssoPopolari dovrebbe scoprire una prima carta sul tavolo della riforma: il progetto di auto-revisione degli statuti affidato a i tre saggi Alberto Quadrio Curzio, Angelo Tantazzi e Piergaetano Marchetti. Ma la partita è ancora all’inizio.