E’ un panico morale, senza base nella realtà. Alimentato da fantasmi, da frustrazioni, da un fastidio per un mondo insoddisfacente, dalla ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare i (supposti) torti subiti. Il Vecchio Continente si agita in questi giorni diviso di fronte al nuovo e prevedibile insuccesso del Consiglio Europeo di giovedì e venerdì di questa settimana. Sei mesi dopo il mancato raggiungimento di un accordo sulle politiche circa l’asilo e l’immigrazione, non si sono fatti progressi, tranne che per l’isteria. Questa domenica, Juncker ha convocato un vertice informale a Bruxelles e il Consiglio ha fatto circolare la proposta di “piattaforme” in Africa, una specie di placebo per allontanare il panico. Mano dura per una minaccia più pensata che reale. Forse questa Europa della paura imparerebbe qualcosa se ascoltasse cosa si dice, come si vede la realtà, come si prega sui battelli dei subsahariani.
La crisi politica provocata dall’immigrazione avviene in un momento di diminuzione del flusso delle persone. L’OCSE ha rese pubbliche qualche giorno fa le cifre degli arrivi nei 37 Paesi dell’organizzazione. Per la prima volta dal 2011, sono diminuiti del 5%. La Germania, che è in gran misura l’epicentro del terremoto, nel 2017 ha visto ridursi drasticamente le richieste di asilo (circa il 44%). Secondo l’OCSE, l’impatto dei rifugiati sulla popolazione lavorativa del mondo sviluppato sarà meno dell’1%.
Durante i primi cinque mesi di quest’anno, secondo l’OIM (l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), hanno attraversato il Mediterraneo un po’ più di 40.000 migranti, mentre nello stesso periodo dello scorso anno furono 80.000 e 215.000 nel 2015. Salvini ha scatenato la crisi di fronte a statistiche evidenti: secondo Frontex, nei quattro primi mesi dell’anno gli arrivi in Italia si sono ridotti del 60%, dopo che nel 2017 si erano già ridotti di un 60% rispetto al 2016. In Spagna si sono triplicati, ma secondo gli ultimi dati del CIS, l’immigrazione rappresenta un problema solo per il 6% dei cittadini. Non vi è una relazione diretta tra le preoccupazioni dell’opinione pubblica, la reazione dei politici e i fatti.
Le difficoltà attuali della Germania sono, soprattutto, conseguenza delle proteste del ministro dell’Interno, il bavarese Horst Seehofer della CSU, teoricamente democratico-cristiano. La CSU teme l’avanzata di Alternative für Deutschland ed è ossessionata dalla perdita della sua tradizionale maggioranza assoluta nelle prossime elezioni regionali: per questo Seehofer ha minacciato il rifiuto dei richiedenti asilo che arrivassero alla frontiera tedesca. Una dichiarazione che va in direzione contraria alla riforma Dublino III, proposta dal Parlamento Europeo, e che mette in discussione Schengen. La riforma Dublino III rende più relativo il peso dei Paesi di primo arrivo e più consistente il riparto delle quote tra i Paesi membri. La posizione dell’Italia, allo stesso modo, si può capire con la necessità per Salvini di trovare nell’immigrazione una leva per sottrarre spazio ai suoi soci di governo, i pentastellati, e tenersi l’intero spazio della destra. I Paesi di Visegrad, ora con l’appoggio dell’Austria, si limitano a sfruttare la paura dell’altro.
La soluzione di mediazione proposta dal Consiglio con la creazione di “piattaforme di sbarco” porterebbe i migranti in un Paese africano per essere identificati. Sembrerebbe più un analgesico virtuale che una proposta percorribile. Malgrado l’appoggio delle Nazioni Unite e malgrado che forse potrebbe servire a evitare qualche morte nel Mediterraneo, resta difficile pensare che tutti i flussi sud-nord possano essere incanalati in alcune “istallazioni” sul vicino continente. Oltre ai problemi di gestione, occorre tener conto che il “subappalto” del controllo dei flussi, come si è fatto in Libia o in Turchia, ha comportato che l’Europa sia stata meno Europa in materia di diritti umani.
La crisi migratoria, che ha molto del virtuale, affonda forse le sue radici in un certo risentimento sociale e culturale degli europei verso uno spazio, il nostro, di civiltà, benessere, uguaglianza, partecipazione nella vita politica e pienezza di diritti, che ha però frustrato le loro aspettative. Non siamo usciti dalla crisi come pensavamo, le cose non sono tornate a essere come prima del 2008, quella grande struttura di diritti sociali costruita dopo la Seconda Guerra mondiale è ancora in piedi, ma più debole, perché la globalizzazione la rende impossibile. Le pensioni sono insostenibili perché non facciamo figli, i nostri riferimenti di significato sono diventati vuoti slogan, cresce il problema della solitudine, la nostra partecipazione nelle decisioni politiche diventa ogni volta più scarsa (la sovranità nazionale è in gran parte sparita). La storia, lungi dal finire, pone ogni volta più sfide. Senza renderci conto, noi europei tendiamo a perdere il rapporto con la realtà e a cercare i colpevoli di una promessa non mantenuta. Noi europei dell’inizio del XXI secolo sembriamo quelli del XIX secolo, quelli che, dopo la frustrazione della Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, cercarono conforto nel romanticismo e nel nazionalismo.
Per questo può essere interessante ascoltare quello che si sente sui battelli di salvataggio. Il giorno prima dell’arrivo dell’Aquarius nel porto di Valencia, da un gruppo di donne nigeriane si alzava un canto: “Tutto quello che devo fare è rendere grazie a Dio”. La Nigeria è uno Stato fallito, queste donne hanno conosciuto abusi e maltrattamenti, sono state sul punto di morire. Avrebbero ragioni da vendere per maledire, ma le tiene unite un inusuale legame con la realtà, quello che è venuto a mancare a noi europei.