Anno nuovo strategia nuova. Chiuse le brevi vacanze alpine a Courmayeur, con prevedibile polemica grillina sui voli di stato utilizzati per recarsi sulle nevi del Monte Bianco, Matteo Renzi ha ripreso in mano i dossier politici. E ha inaugurato il 2015 con una doppia mossa che segna una novità rispetto al recente passato. Invece che esasperare la minoranza interna del Pd, che finora era stato uno dei suoi passatempi preferiti, il presidente-segretario ha lanciato segnali di apertura a bersaniani e civatiani.
Il segnale è duplice. Il primo riguarda il Quirinale. In una lunga lettera agli iscritti del Pd, in cui vengono elencati i punti del programma con le relative scadenze mese per mese, Renzi parla del nuovo capo dello stato come di un «garante di tutti», una figura «super partes», «un arbitro» per di più «equilibrato e saggio»: il che a pensarci bene è una tautologia, una ripetizione ridondante. La vera notizia sarebbe stata se Renzi avesse voluto un arbitro squilibrato e pazzo.
Par di capire che il premier abbia deciso di non esasperare le fibrillazioni interne. Parlare del nuovo inquilino del Colle come di un garante significa allentare le tensioni, smussare quegli spigoli che complicano la ricerca di una candidatura unitaria del Pd. Renzi non sottolinea gli aspetti di autorevolezza e competenza che sarebbero richiesti dalle cancellerie europee al nuovo presidente, ma il suo ruolo di garanzia per tutti i partiti e le varie minoranze.
L’altra apertura alla minoranza Pd riguarda il versante delle riforme istituzionali. Mercoledì la riforma costituzionale torna alla Camera mentre al Senato si discute della riforma elettorale. In entrambi i casi Renzi ha pronte modifiche piccole ma significative per venire incontro alle richieste dei bersaniani, in particolare per quanto riguarda le liste e le preferenze dell’Italicum. Sono interventi che non piacciono a Silvio Berlusconi, ma quello con l’ex Cavaliere è un capitolo che verrà affrontato più avanti. Al momento a Renzi interessa marcare l’attenzione rinnovata che egli rivolge ai suoi avversari interni.
Sono mosse abili. Non si può sottolineare i motivi di scontro mentre ci si avvicina a un momento che richiede coesione massima come l’elezione del nuovo capo dello stato. Renzi blandisce i suoi detrattori, toglie motivi polemici e prova a verificare la possibilità di convergenze. Soltanto avendo alle spalle un partito unito si potrà affrontare la discussione con le minoranze parlamentari per individuare un candidato comune. Perché – va ricordato – il Pd e la sua maggioranza di governo non sono in grado da soli di eleggere il presidente. Questione di numeri ma anche di strategia: se Berlusconi restasse fuori dalla partita, il percorso parlamentare delle riforme diventerebbe un campo minato, un Vietnam di guerriglia e di imboscate.
Renzi con il suo ambizioso programma non può permetterselo. Nella lettera agli iscritti del partito il segretario-premier evoca prospettive trionfalistiche, un «2015 decisivo», che impone di «andare avanti a testa alta senza paura». Toni roboanti per galvanizzare le truppe.
Dal centrodestra la risposta è flebile. Il Nuovo centrodestra chiede di convergere su qualcuno del Ppe (Casini?): figurarsi, Renzi ha tutt’altro in mente, al punto di annunciare che dopo le riforme si occuperà di unioni civili e ius soli. Forza Italia invece porrebbe veti a tecnici (Padoan?) e iscritti al Pd. C’e chi, come Daniela Santanchè, si spinge a porre come pregiudiziale la concessione della grazia all’ex Cavaliere. Schermaglie in attesa che il gioco entri nel vivo e i duri inizino a giocare. E infatti è nell’aria un imminente incontro Renzi-Berlusconi.