Ricordate il clamoroso scontro fra Silvio Berlusconi e Diego Della Valle a Vicenza, alla vigilia del voto del 2006? A quella kermesse confindustriale, Ferruccio De Bortoli – che oggi è tornato a dirigere Il Corriere della Sera – moderava una tavola rotonda dal titolo inequivocabile: “Neo-statalismo municipale, banche, imprese, utilities: concorrenza sleale, sussidiarietà, competizione”. Fuori dal gergo “convegnese”: la “concorrenza” dei sindaci-capitalisti-imprenditori è sempre “sleale”, inaccettabile in particolare nei settori di “banche e utilities”; l’unica “competizione” benefica e degna di una democrazia economica di mercato (anche nei servizi pubblici) è tra “imprese” private; la “sussidiarietà” resta la sintesi possibile (certamente quella intellettuale) di un’autentica politica economica “2.0”: peccato che un testimone culturale come il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà (editrice de ilsussidiario.net) a quel workshop non fosse invitato, anzi: non è mai stato invitato, né prima né dopo.
Quell’establishment – la mitologica “borghesia” evocata anche in questi giorni dietro la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano – votò allora Romano Prodi in odio consolidato al berlusconismo e in omaggio alla ricca stagione “privatizzatoria” di cui il premier emiliano è stato protagonista: all’Iri e poi a Palazzo Chigi, passando anche per il ruolo di superconsulente della Goldman Sachs. L’unico premier (o sindaco) buono – nella visione sempiterna di quella “borghesia” – resta quello che vende, affitta, regala: si tratti di Comit e Credit, di Telecom e Autostrade, delle licenze assegnate a Omnitel o a Fastweb, di A2A o della Sea, delle stesse Fondazioni bancarie. Forse che alla Compagnia San Paolo – di cui il sindaco “comunista” di Torino resta king-maker – gli ultimi due presidenti non sono stati Franzo Grande Stevens e Angelo Benessia, legali degli Agnelli e della Fiat?
Non sorprende quindi che – appena spenti i fuochi della festa arancione per la vittoria di Pisapia – Alessandro Penati (commentatore finanziario-principe di Repubblica) inviti sbrigativamente il neo-sindaco a riscrivere il suo programma sulla gestione delle grandi partecipazioni azionarie del Comune e, in generale, degli interessi economici diretti di Palazzo Marino. Repubblica ha ciecamente sostenuto Pisapia, eppure Penati scopre subito che le “guidelines” del candidato emerso dalle file della sinistra radicale sono indigeribili anche per un economista “democratico”.
Nel 2011, anche al più incallito censore del preteso affarismo dell’amministrazione Moratti, appare politicamente scorrettissimo affermare che il Comune di Milano debba mantenere una “funzione di controllo e indirizzo strategico” per la municipalizzate, delegandone la gestione a non meglio definiti “organismi” posti alle dipendenze di un “assessorato allo sviluppo”. È per questo che opinionisti e “media” pro-Pisapia sono al lavoro per riverniciare in fretta e furia quelle posizioni di partenza squisitamente ideologiche.
Basta parlare di “assessore alle partecipazioni comunali”: il rischio è di far ridere in ritardo al cospetto del ben più possente “colbertismo” di lungo periodo del ministro Tremonti (ed è significativa, in ogni caso, la pre-designazione di Bruno Tabacci al Bilancio della giunta Pisapia: un prodotto della grande scuola della Dc marcoriana, non delle Frattocchie e neppure del sindacato bertinottiano). Basta parlare anche di “organismi”, quando già tutti sussurrano di “Iri a Palazzo Marino” o, peggio, di “tecnocrazia cinese” (e almeno a Milano approdassero davvero gli ingegneri-finanzieri di Pechino, i nuovi mandarini educati negli ultimi vent’anni tra le fila del partito e dell’esercito post-maoisti).
Largo invece a una non meglio definita “super-holding”, che sembra ricordare un “fondo sovrano” in salsa municipale: forse più guardando a come la Norvegia finanzia il suo welfare investendo sui listini azionari globali i proventi di petrolio e gas, piuttosto che al capitalismo autoritario della città-stato Singapore. A chi meglio, comunque, affidare la “Milano Spa” se non ad Alessandro Profumo? L’ex amministratore delegato di UniCredit è uno dei pochi manger europei – e sicuramente l’unico italiano – di cui non si possa discutere la fedeltà realizzata ai principi dell’efficienza meritocratica in azienda e della creazione di valore per gli azionisti come coerente standard direzionale per un’impresa competitiva sul mercato. Per questo tutto si può dire di Profumo, ma non che gli piaccia il “neo-statalismo municipale”.
E sarebbe interessante sapere da lui come voterà domenica prossima al più “popolare” dei quattro referendum: quella sulla gestione privatistica dei servizi idrici. Non c’è dubbio che l’elettorato che ha portato Pisapia alla vittoria (prevedibilmente Profumo compreso) sia a favore dell’acqua come “bene pubblico”: ma come si muoveranno Pisapia (e, nel caso, Profumo) come azionisti di A2A? Meglio l’asset management “mercatista” (dividendi e gestione attiva della partecipazione in Borsa)? O meglio “l’economia sociale di mercato” a favore dei bisogni (e degli umori) degli elettori del centro-sinistra (ma anche un po’ della Lega)? Penati su Repubblica ha ripetuto la sua con chiarezza: meglio vendere, tutto e subito. Eppure il lettore di Repubblica è stato l’elettore-tipo di Pisapia. Eppure l’economista ha esordito proprio con un incarico da parte del Comune di Milano.
Il primo sindaco leghista – Marco Formentini – lo inviò in Fondazione Cariplo, subito laboratorio di sussidiarietà e sfondo vero – assieme ad altri 87 enti dell’Acri – di ogni dibattito concreto sugli equilibri tra stato e mercato nella gestione dell’Azienda-Italia. Non ha infatti stupito in questi giorni, rivedere all’opera un altro anziano “guru” nazionale come Guido Rossi: sulle colonne de Il Sole 24 Ore si è prodotto in un inedito plauso alle Fondazioni.
Il camaleontismo di Rossi ha sempre fornito segnali di primo livello sul “what’s happening” tra Milano e Roma. Presidente della Consob al decollo epocale di Piazza Affari, fece subito i conti con il crack Ambrosiano. Senatore della sinistra indipendente, firmò la normativa italiana Antitrust, Raccolse i cocci della bancarotta Ferruzzi per conto delle grandi banche e poi provò – senza successo – a lanciare la Telecom privatizzata come “public company”. Giurista democratico e avvocato miliardario fu l’eminenza grigia della Procura di Milano durante la battaglia tra “furbetti” e “poteri forti” su AntonVeneta, Bnl e Rcs, sei anni fa. E alla fine fu nel suo studio che la Bnl fu venduta ai francesi di Bnp. Poco dopo Rossi trovò pure il tempo di arbitrare Calciopoli, stangando la Juventus agnelliana e premiando l’Inter morattiana.
Oggi – sul giornale della Confindustria – Rossi si complimenta a posteriori con Carlo Azeglio Ciampi (che firmò nel ’99 una legge di riforma organica delle Fondazioni) e con Giuseppe Guzzetti, che nel 2001-2003 resse l’urto di Tremonti e ottenne dalla Corte costituzionale due sentenze-quadro che hanno battezzato le Fondazioni come “pilastri della sussidiarietà” nel sistema-Paese. Poche settimane fa proprio Guzzetti ha aperto una nuova “fase costituente” che culminerà con il varo di una “Carta della Fondazioni” al congresso Acri del 2012. Ma quando un personaggio come Rossi rivendica le Fondazioni solo al “ciampismo” (negandole il successivo “tremontismo” che ha partorito tra l’altro la Cassa Depositi e Prestiti) è forte il sospetto che stia tentando uno “spoil-system” politico-culturale. E che – dietro l’omaggio d’obbligo a Guzzetti – si nascondano già le prime manovre per la successione al vertice della Cariplo, in agenda tra due anni.
Un calcolo in ogni caso sbagliato: l’avvocato di Appiano Gentile è forse l’unico leader istituzionale italiano che potrà decidere quando lasciare (la Cariplo e/o l’Acri), perché gli verrà sempre chiesto di restare, da tutti i lati dello scacchiere politico-sociale. E non ha certo bisogno di piacere ai vecchi-nuovi arrivati della giunta Pisapia. Invece, dieci anni fa, ha chiesto e trovato il sostegno unico della società civile vera, quella che nella sussidiarietà ha sempre creduto per davvero.