Il premier Matteo Renzi entra a gamba tesa sulle Popolari con un decreto rottamatorio, fortemente politico. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco assegna stringati placet tecnici, ma lascia nell’ombra le mosse di via Nazionale fra Bce, Palazzo Chigi e Tesoro. Il ministro Pier Carlo Padoan accenna a una frenata mentre la Consob alza il tiro sulle speculazioni della City sulla riforma: in parte riferibili a Davide Serra, finanziere italiano e fundraiser per Renzi (la Commissione di Borsa è tuttora guidata da Giuseppe Vegas, ex vice-ministro di Giulio Tremonti in via XX Settembre, ora sotto inchiesta per presunte irregolarità in Commissione). Sul presunto insider trading sulle Popolari apre intanto un fascicolo la Procura di Roma (ma quella di Milano già rincorre), mentre quella di Bergamo rispolvera in modo spettacolare un dossier sulla governance di Ubi, mettendo sotto indagine l’intero vertice.
È solo uno degli spaccati di un inizio d’anno di turbolenza inattesa, ma forse non imprevedibile sul terreno della vigilanza bancaria e della politica creditizia. In pochi, in realtà, si illudevano che l’avvio dell’Unione bancaria avrebbe segnato la fine dei problemi e non invece il loro inizio per il sistema bancario italiano: per il quale lo stress da vigilanza (da regole e da scelte delle diverse autorità in una fase di transizione) si sta già da tempo rivelando più insidioso di quello portato dalle crisi economico-finanziarie.
“Vogliamo che le Popolari si aggreghino, non che vengano scalate dall’estero”, ha detto Padoan, ma non ha affatto spiegato come pensa che le Popolari – da sole o fuse – potranno difendersi dopo la trasformazione in Spa. Una settimana fa al Forex, del resto, Visco si è tenuto alla larga sia dal considerare i rischi di scalata, sia dall’incoraggiare apertamente le fusioni fra Popolari. E neppure Renzi, nell’annunciare il blitz sulle Popolari, si è preoccupato di indicare linee e orizzonti di un possibile riassetto bancario domestico. Da Renzi, Visco e Padoan continuano invece a giungere solo denunce molto generali (ed ex post) su supposte inefficienze delle banche con governance cooperativa e sulle loro pretese responsabilità nel razionamento del credito.
Nel frattempo Bankitalia e Tesoro hanno deciso di commissariare in corsa una delle Popolari oggetto della riforma. L’Etruria è stata posta in amministrazione straordinaria per “gravi irregolarità” non meglio precisate e la Vigilanza si è subito premurata di affermare di essere stata tenuta all’oscuro delle reali criticità del bilancio della banca di Arezzo. Non è la prima volta: anche in occasione dei recenti sviluppi giudiziari sul caso Montepaschi, l’autodifesa di Palazzo Koch ha fatto perno sugli ostacoli alla vigilanza posti dai vertici senesi circa la gravità della situazione debitoria di Mps.
Proprio quando l’Etruria è stata commissariata, la lunga crisi del Monte è giunta probabilmente al suo epilogo. Nelle stesse ore – quasi si trattasse di una comunicazione di routine – il Tesoro ha annunciato che convertirà in azioni del Montepaschi tre miliardi di Monti-bond, accollandosi di fatto oltre la metà dell’aumento di capitale da 5 miliardi, deciso da Mps dopo la bocciatura al primo stress test Bce e una nuova paurosa perdita a fine 2014. La ri-nazionalizzazione parziale del Monte è la prima dalla grande riforma del 1990 e l’unica cui l’Italia è dovuta ricorrere, più di sei anni dopo il crac di Wall Street. Ma non va mai dimenticato che Siena non è crollata sotto i colpi della finanza derivata, ma per l’acquisizione dell’AntonVeneta, autorizzata senza obiezioni dalla Vigilanza della Banca d’Italia.
Se la Banca d’Italia di Mario Draghi ha dato via libera al riacquisto di AntonVeneta (la cui inutile difesa era costata posto e condanna al predecessore Antonio Fazio), nessun ministro del Tesoro è comunque mai intervenuto sull’illegalità della governance pubblica, del bilancio indebitato e della partecipazione maggioritaria della Fondazione Mps. Ora sono tornate a levarsi richieste polemiche di intervento sulle Fondazioni, ma via XX Settembre sta tenendo ferma la bozza di atto negoziale che Padoan aveva preannunciato alla Giornata del Risparmio a fine ottobre: l’Acri di Giuseppe Guzzetti aveva subito aderito, inviando al Tesoro un progetto completo di autoriforma, già in parte adottata negli statuti degli 88 enti come “Carta delle Fondazioni” .Ma il varo dei nuovi principi condivisi (separazione più netta fra politica e Fondazioni, maggior diversificazione dei rischi negli investimenti patrimoniali) resta in congelatore, mentre in gennaio ha visto volteggiare fra i palazzi romani un abbozzo di norma che trasferirebbe dal Tesoro a Bankitalia e Consob la verifica dei criteri di nomina dei membri degli organi di indirizzo.
La regola era stata inserita nello stesso decreto Popolari e ha poi fatto capolino in una normativa antitrust, ma per ora non ha visto la luce. Quel che è certo è che da un quarto di secolo la legge Amato e poi la legge Ciampi stabiliscono la netta separazione fra enti conferenti (vigilati dal Tesoro) e banche, vigilate da via Nazionale, con la Consob in azione nel suo proprio ruolo (trasparenza su Borsa e società quotate).
Last but not the least il credito cooperativo. Visco ha citato come un dato a lui estraneo le difficoltà di molte Bcc e le ha genericamente invitate ad aggregarsi. A stretto giro ma quasi dall’estero – un convegno delle Raiffeisenkassen altoatesine – il capo della vigilanza Carmelo Barbagallo ha prospettato senza troppi giri di parole la creazione di un polo bancario su modelli centro-europei, forse con una capogruppo Spa quotata in Borsa. Uno sbocco che – dall’Austria alla Francia – ha regolarmente creato e non risolto problemi al credito cooperativo nazionale. La legge bancaria in vigore nell’Ue distingue tuttora il credito cooperativo (e solo questo) dall’attività bancaria standard, svolta da imprese tipicamente quotate e orientate al profitto.
Più in generale – fra politica e supervisione del credito – via Nazionale continua a rimanere ”in una terra di mezzo” quando si tratta di proporre analisi e rappresentazioni della crisi bancaria. Bankitalia non ha mai riconosciuto pienamente – né con Mario Draghi, né con Ignazio Visco – che le banche italiane hanno superato forse al meglio in Europa la fase esplosiva di una crisi innescata dalla finanza anglosassone. Non ha mai ammesso che del terremoto dell’estate 2011 le banche nazionali – al pari dell’intero sistema economico – sono state assai più vittime che responsabili: vittime di un clash fra debolezza politica interna e speculazione internazionale e poi di una recessione pesantemente indotta dall’austerity fiscale. E nonostante il presidente dell’Eba sia un ex funzionario di via Nazionale (o forse proprio per questo) il primo stress test su scala Ue ha imposto standard di valutazione in sé discutibili nel momento di picco dello spread italiano. E anche in occasione dell’Asset quality review che, pochi mesi fa, ha dato il via all’Unione bancaria e alla supervisione Bce, via Nazionale è sembrata voltarsi dall’altra parte quando i nuovi ”arbitri” europei hanno programmaticamente deciso di fischiare solo i falli da sofferenza creditizia delle banche italiane e non quelli da derivati di quelle tedesche. Né via Nazionale – ovviamente – ha mai sollevato obiezioni allo sviluppo del modello di vigilanza microprudenziale “Basilea 2-3” promosso in sede internazionale da Draghi: un reticolo di regole apparentemente tecniche, ma di fatto saldamente radicate nel concept della finanza di mercato e della concorrenza spietata a quella bancaria.
L’estremo distillato di Basilea 2-3 resta questo: un prestito sindacato a un’Opa da un miliardo è preferibile a diecimila crediti da 100mila euro ad altrettanti imprenditori o acquirenti privati di case. Non è difficile immaginarlo dal punto di vista delle istituzioni finanziarie più attive sui mercati globali. Non è difficile lasciarlo immaginare agli investitori (qualche volta tenuti un po’ all’oscuro sui reali mix rischio-rendimento). Non è d’altronde difficile immaginare i perdenti predestinati di questa rivoluzione: le imprese minori, le famiglie e le banche da sempre strutturate per intermediare i lorio risparmi in credito. Dietro il credit crunch italiano c’è comunque anche questo: nuove regole – e nuovi costi – vessatori per chi vuole finanziare le imprese e non cercare profitti finanziari sui mercati.
Dieci anni fa la traumatica cacciata di Antonio Fazio dalla Banca d’Italia aveva costituito una sorta di esemplare happy end nella narrazione di una vigilanza, retriva, opaca e obsoleta infine sconfitta da una vigilanza new, efficace perché razionale, globale, “democratica”. Non tutto, evidentemente, deve aver funzionato se la “nuova vigilanza” sembra oggi brancolare in terra di nessuno e smentire i propri “manifesti”.