Un inedito film con un giovane Charlie Chaplin è stato di recente ritrovato negli Stati Uniti. Si tratta di un breve cortometraggio (una bobina, circa 10 minuti) girato in 16 mm dal titolo A Thief Catcherrisalente al 1914, gli albori del cinema classico americano. La pellicola, scoperta percaso presso un antiquario dal critico e storico del cinema Paul Gierucki, è già stata resa nota al pubblico, proiettata al Festival di Arlington in Virginia.
Il film non è altro che una rutilante comica slapstick (schiaffo e bastone), tra le tante prodotte dagli studi Keystone di Hollywood, attivi già a partire dal 1910. L’importanza del ritrovamento sta nel fatto che nel film fa una delle sue prime apparizioni il personaggio di Charlot. La sua nascita risale infatti allo stesso anno, solo un paio di comiche prima.
Tradizione vuole che, mostrandosi per la prima volta nei panni di Charlot al produttore e regista proprietario dei Keystone Mack Sennett, Chaplin abbia così descritto il suo nuovo personaggio: “Vedete, questo è un individuo multiforme, un vagabondo, un gentiluomo, un poeta, un sognatore, un uomo solitario sempre in cerca di nuove avventure. Vorrebbe farvi credere che è uno scienziato, un musicista, un duca, un giocatore di polo. Però non disdegna di raccattare cicche o di rubare una caramella a un bambino. E naturalmente, se l’occasione lo giustifica, sarà anche capace di prendere una signora a calci nel didietro: ma solo in casi estremi!”.
Siamo negli anni Dieci del novecento. Il cinema, che è stato finora solo attrattivo e illustrativo, sta per diventare un macchina che racconta storie da sola, cioè senza alcun “filtro” tra essa e il pubblico. Charlie Chaplin affina le sue arti mimiche dando vita all’immortale Charlot proprio mentre David W. Griffith mette a punto il linguaggio del cinema classico narrativo: poche fondamentali regole per metter in scena una storia in immagini, per gestire il suo sviluppo spaziale e temporale in modo che risulti intellegibile e trasparente allo spettatore. Tutto nasce da Griffith: chiunque, dopo di lui, o ha utilizzato la sue regole – anche seguendo vie personali – o le ha trasgredite consapevolmente.
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Le storie per immagini di Griffith incontrano benissimo le aspettative del pubblico, così le sue opere danno un grande contributo all’ascesa e all’affermazione planetaria dell’industria cinematografica di Hollywood: nascono il divismo e i generi cinematografici classici.
Ma non il comico, questo è stato il primo grande genere, affermatosi autonomamente, in parallelo al lavoro di Griffith nei citati studi Keystone. Qui infatti sono state realizzate centinaia di slapstick comedies già anni prima dell’uscita di Nascita di Una Nazione (D. W. Griffith, 1915), film che tradizionalmente segna l’inizio del classico.
Comiche brevi – dai dieci ai quindici minuti – incentrate su una semplice storia atta a pretesto, un esile filo narrativo su cui appoggiare gag visive a profusione e di tutti i tipi: acrobazie, botte, inseguimenti, voli, cadute e (ovviamente) torte in faccia, il tutto in un vortice di movimento continuo e anarchico.
Un cinema, quindi, che si traduce in un meraviglioso giocattolo, che smonta e rimonta (quindi smaschera) il proprio meccanismo, che ha per oggetto solo se stesso, che non comunica messaggi ma movimento allo stato puro. Questo cinema-laboratorio è stato importante come e forse più delle opere di Griffith per lo sviluppo di un linguaggio cinematografico compiuto e autonomo, e non a caso molto ammirato dagli autori delle avanguardie europee.
E così, come quasi tutti i grandi comici dell’epoca d’oro del muto, anche Charlie Chaplin si fa le ossa nelle produzioni di Mack Sennett. Egli si innesta in questo scenario portandovi le esperienze londinesi di ballerino di pantomima e di clown circense, e inventando la già ricordata maschera di Charlot: una sorta di ballerino-clown (appunto) a metà strada tra un nobile decaduto e un vagabondo desideroso di riscatto, il personaggio che lo renderà celebre e amato in tutto il mondo.
Ma Chaplin non è stato solo uno straordinario attore comico. Diventato dal 1917, con La Cura Miracolosa, anche autore e regista delle sue comiche, è da annoverarsi – col già citato Griffith, Buster Keaton ed Erich Von Stroheim – tra i padri fondatori del linguaggio del cinema.
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Realizza fino al 1923 diversi cortometraggi, dove si distingue per una regia di primitiva vitalità con cui, da un montaggio serrato, fa scaturire una sorta di danza filmica di cose e persone. Poi, negli anni della maturità artistica, trova la sua cifra stilistica preferita nella mirabile commistione tra comico e melodrammatico, tipica dei lungometraggi più celebri ed ancora oggi insuperata.
Di tutti questi è accreditato anche come autore del tema musicale, esempio di poliedricità più unico che raro in tutta la storia del cinema. L’ultima sublime apparizione di Charlot si ha con l’immenso Tempi Moderni (1936), volutamente realizzato da Chaplin ancora con le modalità espressive del muto in piena era sonora.
Negli ultimi anni di vita Chaplin soleva dire di voler essere ricordato soprattutto come l’autore del film La Febbre dell’Oro (1925), forse perché è quello con lo Charlot più solo, affamato, vicino alla sua giovinezza di stenti nei sobborghi londinesi. Ma l’autografo di tutta una carriera lo vediamo nello struggente sguardo di Charlot, occhi da clown che ridono e piangono ad un tempo, quegli stessi occhi che ci rendono indimenticabile l’emozione dell’ultima scena di Luci della Città, capolavoro dei tempi in cui il cinema, muto in bianco e nero ed in frame 4:3, non era altro che musica del movimento, dello spazio e del tempo.