La montagna ha partorito il classico topolino, almeno sembra. L’incontro tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, annunciato con le fanfare, circonfuso da un alone taumaturgico, presentato come il balsamo che avrebbe sanato le lacerazioni tra i due leader del centrodestra, è stato poco più che un brodino caldo per un convalescente.
Il nuovo Berlusconi, dialogante e armato di buona volontà dopo aver cicatrizzato le ferite di piazza Duomo, e il vecchio Fini, puntiglioso e spigoloso, hanno discusso attorno a una tavola da pranzo di Montecitorio per due ore. Il menù servito nei piatti (uova strapazzate e verdure per il premier con tre denti provvisori, ravioli e filetto per gli altri) è passato in secondo piano rispetto a quello in agenda: riforma della giustizia, situazione interna al Pdl, museruola ai giornali vicini al centrodestra, candidature alle regionali, rapporti con l’Udc ed eventuali alleanze, rimpasto di governo.
Sorridente all’arrivo, corrucciato all’arrivederci, Berlusconi non è stato contento del faccia a faccia. Fini non è arretrato di un millimetro dalle posizioni degli ultimi mesi, che riguardano due temi in particolare, cioè il «fuoco amico» sparato da Feltri e Belpietro e la gestione del partito, più che la cittadinanza e la bioetica. Il presidente della Camera avrebbe detto, tra l’altro, a Berlusconi: «Io lavoro con te, non per te. Non confondere la lealtà con la gratitudine». E poi: «Se il fuoco amico avesse colpito Bossi, avresti taciuto come sei stato zitto con me?».
Il vertice è stato molto teso, al di là delle dichiarazioni rilasciate – non a caso – dai colonnelli di Fini presenti al pranzo di lavoro (La Russa e Bocchino). Già il numero dei commensali fa pensare a una partita che Berlusconi ha giocato in trasferta: tre contro due (il Cavaliere era accompagnato da Gianni Letta). E così pure il terreno di gioco, l’appartamento privato del presidente della Camera a Montecitorio. Tutto ha dato l’impressione che Berlusconi salisse a Canossa, compresi i risultati del vertice: un patto di consultazione più frequente (richiesto da Fini e già più volte annunciato) per sciogliere le tensioni tra i due e un altolà agli accordi con l’Udc. Questo è il capitolo più nuovo.
Se il premier premeva per una chiusura netta perché in campagna elettorale le scelte decise premiano, Fini era più possibilista perché i voti di Casini possono sempre fare comodo. È passata la linea dura, anche se questo non mette in discussione i patti già presi, per esempio l’appoggio dell’Udc alla Polverini nel Lazio. D’altra parte, in quel caso i centristi appoggiano il candidato del Pdl senza un accordo organico tra partiti.
Berlusconi ha incassato un mezzo sì alla Santanché sottosegretario senza però ottenere il vero via libera alle questioni che più gli stavano a cuore: corsie scorrevoli per la riforma della giustizia e certezze sulle caselle mancanti alle regionali. La giustizia è stato il banco di prova del rapporto tra i due. Fini ha riconosciuto che Berlusconi è «vittima di una persecuzione» dalla quale deve «assolutamente essere sottratto». Ma non a ogni costo e in qualsiasi modo: «Non è detto che il modo giusto per farlo sia che tu tiri fuori un provvedimento a settimana, senza concordare prima e senza sapere dove si va a parare». Dunque si andrà avanti con il legittimo impedimento e il processo breve, ma il premier dovrà evitare altre fughe in avanti o di lato.
Insomma, più che di pace si tratta di tregua armata mentre i sondaggi (l’ultimo è quello di Luigi Crespi) continuano a dare il Pdl in crescita assieme a Lega e radicali. Gli italiani confermano fiducia a Berlusconi e Bossi disinteressandosi dello stato dei loro rapporti con Fini.
Con il Pdl al 40 per cento e il Carroccio al 10 (più Lombardo e Storace), la maggioranza assoluta dei voti è garantita. E in Berlusconi, la tentazione di riaprire i giochi dopo le regionali potrebbe riemergere.