Ieri il presidente di Fiat, John Elkann, ha dichiarato che il Lingotto parteciperà all’aumento di capitale di Rcs. Il lettore distratto potrebbe a questo punto chiedersi che cosa stia succedendo all’editrice de Il Corriere della Sera e quali siano i rapporti economico-finanziari che legano un produttore di auto globale che si appresta a fondersi con Chrysler con un quotidiano italiano con sede a Milano. La vicenda da cui si genera la dichiarazione contiene più di uno spunto interessante.
Innanzitutto c’è la vicenda “industriale” di Rcs, che ha chiuso il 2012 con risultati drammatici con un reddito operativo lordo praticamente nullo e un debito netto di 850 milioni di euro (non molte società sarebbe sopravvissute a questi numeri). La crisi ha colpito duro “il Corriere” per acquisizioni costose e dal tempismo pessimo (la spagnola Recoletos comprata all’apice del “miracolo spagnolo” nel 2007 per più di 800 milioni di euro), per l’impatto sulle copie vendute e sui ricavi pubblicitari della crisi stessa e infine per le conseguenze di una trasformazione epocale che sta attraversando il settore dei media messo alle corde dall’online.
L’ultimo punto si rende ormai sempre più evidente e fa specie, per esempio, aprire i giornali il giorno dopo delle elezioni (emblematico è stato il caso delle presidenziali americane aggravato dal fuso orario) e scoprire di trovarsi davanti notizie vecchie di un giorno; tutto questo senza considerare che a portata di mouse sono sempre più disponibili contenuti di qualità e gratuiti grazie a una struttura dei costi infinitamente meno pesante di quella necessaria a far arrivare in ogni paese e quartiere la copia cartacea tutte le mattine prima delle 7. Per questo, tornando ai risultati economici, il cda di Rcs ha proposto un aumento di capitale fino a un massimo di 600 milioni di euro, di cui 400 da effettuare entro luglio 2013. Sarebbe una cifra molto elevata in qualsiasi fase economica, ma oggi il numero è ancora più difficile da ignorare.
Gli attuali azionisti, se vogliono mantenere inalterata la propria partecipazione e non farsi diluire (quasi completamente dato il prezzo dell’azione e l’importo dell’aumento), sono chiamati a partecipare all’aumento. I nomi e i cognomi di chi sarà chiamato a pagare il conto sono molto più facili da individuare rispetto alla stragrande maggioranza delle altre società quotate. Infatti, il patto di sindacato controlla oltre il 65% della società, mentre Diego Della Valle e Giuseppe Rotelli hanno rispettivamente il 5,5% e il 13%; sul mercato rimane poco più del 10%. L’ampiezza e la caratura degli azionisti (nel patto, tra gli altri: Mediobanca, Fiat, Intesa, Generali, Banco Popolare, Italmobiliare, Edizione dei Benetton e Pirelli) difficilmente è stata determinata, in modo irresistibile, dalla bontà dei risultati economici o da sinergie industriali; il controllo del Corriere rimane, evidentemente e nonostante i risultati, desiderabile.
Il problema nasce quando si mettono giù i numeri per capire quale sarà il conto. Fiat, che medita di chiudere impianti in Italia, per il cui amministratore delegato Renzi è “il sindaco di una piccola, povera città” (sarebbe Firenze), e che ormai da mesi sottolinea le terribili prospettive dell’Italia e del suo mercato auto, spenderà per l’aumento di una editoriale italiana più di 40 milioni di euro; ci sfuggono le sinergie tra giornali e auto quando in una lista potenziale di investimenti per il gruppo Fiat quello di cui sopra non sembra essere prioritario. Tra le banche, se dovessero aderire all’aumento, che diminuiscono i crediti, ristrutturano la rete, in alcuni casi hanno fatto ricorso ad aiuti di Stato il conto sarà di quasi 60 milioni per Mediobanca, 20 milioni per Intesa, una quindicina di milioni a testa per Generali e Banco Popolare. Anche in questo caso nessuna sinergia e qualche dubbio sulla strategicità e opportunità dell’investimento.
Normalmente di fronte a risultati così drammatici e a ristrutturazioni aziendali così pesanti la priorità è trovare un socio indutriale, con competenze specifiche e che abbia in mente un progetto (la stessa Fiat con General Motors prima dell’avvento di Marchionne). In alternativa ci si pone il problema di una “rivoluzione” nell’azionariato (i rumours coinvolgono da mesi il Financial Times) o la chiusura. L’economia però non è una scienza esatta e non esistono paradigmi che valgono sempre e comunque, in ogni caso e a tutte le latitudine. Rimane però l’impressione che il paradigma scelto da Rcs e dai suoi azionisti singolarmente sia perfettibile e non esente da qualche, “lieve”, critica; soprattutto nell’anno di grazia 2013 con il Pil italiano che “veleggia” verso il -2%.
P.S.: Saremmo davvero curiosi di conoscere la risposta dell’uomo “di mercato” Marchionne alla domanda di un anonimo investitore istituzionale internazionale che chiedesse le ragioni dell’investimento in Rcs e del perché i soldi non vengano destinati alla remunerazione del capitale…