Lo psicodramma del centrodestra è appena cominciato e avrà conseguenze imprevedibili. La slavina si è staccata mercoledì, quando si è capito che il nome di Sergio Mattarella non era una carta che Matteo Renzi metteva sul tavolo perché teneva coperta quella vincente. Il gioco di Renzi è stato duro e abile, mirato a spaccare l’asse Alfano-Berlusconi con una candidatura perfetta allo scopo: Mattarella è siciliano ed ex Dc come Alfano, fuori dal Parlamento da sette anni e lontano dalle lotte intestine del Pd (che ora lo esalta come un padre della patria dopo averlo emarginato), giudice costituzionale e quindi arbitro e garante della Carta. L’identikit chiesto dai centristi.
Per Alfano e Berlusconi la successione a Giorgio Napolitano era diventata la prova generale del riavvicinamento, reso necessario dalla nuova legge elettorale da loro stessi votata, che premia la lista e non la coalizione. Il centrodestra potrebbe sperare di arrivare al ballottaggio soltanto se Forza Italia e Ncd formassero liste uniche nelle circoscrizioni elettorali. I rumors di Montecitorio dicono che l’estrema offerta fatta dal Cavaliere ad Alfano sia stata quella di intestargli la futura leadership in cambio della scheda bianca: senza l’appoggio del Ncd l’elezione di Mattarella sarebbe stata molto più problematica, il governo sarebbe stato terremotato e le elezioni anticipate si sarebbero avvicinate. E comunque, tra qualche mese si vota per le regioni: in Veneto e Campania soltanto l’accordo tra Forza Italia e Ncd (oltre alla Lega) potrebbe consentire al centrodestra di restare ancora al potere.
Alfano per la seconda volta ha respinto le lusinghe berlusconiane a prezzo però di una spaccatura profonda: un gruppo di parlamentari ha lasciato gli incarichi (in testa il capogruppo Maurizio Sacconi). Ora Ncd è a un bivio perché il gioco duro di Renzi ha smascherato l’ambiguità di un partito che doveva fare da «contrappeso» alla minoranza democratica e invece è semplice portatore d’acqua al mulino del Pd. E naturalmente la minoranza Pd ha subito alzato la testa, con Pierluigi Bersani che tenta di dettare la linea al neo-presidente in materia di legge elettorale.
Analoghe contraddizioni esplodono in Forza Italia, che almeno non è al governo ma accusa una pesantissima sconfitta. Ormai è chiaro che Berlusconi non otterrà contropartite per l’appoggio alle riforme renziane. Difficile per un partito d’ispirazione liberale bocciare riforme come quella dell’articolo 18 o la fine del bicameralismo perfetto, vecchi cavalli di battaglia del centrodestra. La spietatezza di Renzi ha una logica: o votate ciò che farebbe parte del vostro programma (e lo fate «per il bene del Paese», non per ottenere lasciapassare) oppure contraddite voi stessi.
Così Renzi ha portato a casa molto più che l’elezione del nuovo capo dello Stato al quarto scrutinio, come promesso qualche settimana fa (finalmente una promessa mantenuta), ma ottiene sul conto anche la spaccatura dell’asse Berlusconi-Alfano che si stava ricomponendo. Matteo Salvini, a cavallo di un’opposizione dura e pura, dice che «il centrodestra non esiste più, è morto».
Il Cavaliere e il ministro dell’Interno ora devono decidere che cosa fare. Per Berlusconi non si tratta soltanto di fronteggiare una rivolta interna, con i «falchi» che riprendono a volteggiare dopo il fallimento della politica delle «colombe» Verdini e Letta, fautori del sostegno a Renzi. È in atto una guerra tra bande, con scambi di accuse reciproche su chi ha votato scheda bianca e chi si è invece espresso per Mattarella. Ma riorganizzazione del partito a parte, Berlusconi deve decidere la linea politica: sì o no alle riforme di Renzi? Sì o no a recuperare Alfano? Adesso la rabbia non è ancora sbollita. Ma l’aver votato scheda bianca (invece che non votare del tutto) è una scelta che non rompe e lascia aperti margini di riavvicinamento.