Giovedì scorso i giornalisti erano stati convocati dal ministro Tremonti presso la Cassa depositi e prestiti per la presentazione del nuovo Fondo strategico italiano: 1,1 miliardi versati dalla stessa Cdp e da Fintecna per lanciare uno strumento di pronto intervento pubblico sul mercato, per ingressi nel capitale di “società di rilevanza nazionale”.
Di quella conferenza stampa è rimasta agli atti una sola affermazione del titolare dell’Economia: «Domani risponderò all’ambasciatore Romano sul Corriere della Sera». Con una battuta-d’appendice: «Mi sono dimesso da inquilino» Era, in effetti, tutto quanto interessava i “media” quel giorno, dopo l’escalation delle indiscrezioni giudiziarie sull’“affaire Milanese”: la controversa ospitalità offerta a Tremonti dal suo ex consigliere politico; i presunti intrecci di vario malaffare di Milanese, sempre più indagato da varie Procure.
Tutto si è risolto quindi in un momento simbolico di un’estate sempre più grottesca sul piano politico-economico: spasmodiche congetture sulla lettera al Corriere (scuse, dimissioni, querele, denunce politiche, ecc.); nulla o quasi sul Fondo e sull’emergenza che va maturando di pari passo con gli attacchi speculativi al debito pubblico italiano: la stabilità del controllo di molte imprese italiane “di rilevanza nazionale” (dalle banche alle grandi utilities) e la nuova voglia di privatizzazioni, ancora sollecitata dalla necessità di far fronte a deficit e debiti del bilancio pubblico con vendite di asset patrimoniali.
Chi scrive questa nota settimanale ha richiamato “La lezione del ‘92” già sul Sussidiario del 12 luglio e quelle brevi riflessioni sono state lette nei giorni successivi da moltissime persone. Altri hanno ripreso, integrato, articolato quell’abbozzo interpretativo. La speculazione (allora contro la lira, oggi contro gli “spread” dei Btp) pone le premesse per una crisi finanziaria interna e quindi per un puntuale avvistamento del Britannia, il simbolico vascello che dalla City, cavaliere-corsaro è pronto a offrire denaro in cambio di vendite a buon mercato di pezzi pregiati dell’Azienda-Paese.
Proprio il Fondo strategico italiano, del resto, era stato concepito in fretta e furia da Tremonti in primavera, quando Parmalat è finita sotto Opa da parte della francese Lactalis (acquisizione poi conclusa con successo nei giorni scorsi in Piazza Affari). Un caso esemplare di corrente capitalismo italiano, di cui anche il Sussidiario ha scritto a lungo.
Il gruppo di Collecchio, clamorosamente fallito a fine 2003, è stato ristrutturato da Enrico Bondi, manager di antica scuola Mediobanca. Come commissario governativo ha recuperato per via giudiziaria alcuni miliardi di euro di fondi distratti da Parmalat durante gli anni di “mala gestio” della famiglia Tanzi, conniventi e compici alcune grandi banche internazionali. Ha costruito una soluzione (lo scambio obbligazioni-azioni) che alleviasse almeno in parte gli 80mila piccoli obbligazionisti rimasti impigliati nel crack e contribuisse a ridare alla “nuova Parmalat” un assetto proprietario: public company quotata in Borsa.
Come amministratore delegato, infine, Bondi ha pilotato il rilancio industriale. Una Parmalat più piccola e restituita al “core business” è così ridivenuta un medio gruppo agroalimentare europeo, dotato di alcuni asset interessanti: oltre al marchio, al portafoglio-prodotti e al posizionamento sul mercato italiano, aveva certamente i tre miliardi di liquidità via via accumulati in bilancio dal Bondi “commissario”.
Un’impresa con queste caratteristiche – sicuramente “made in Italy” – non ha tuttavia mai riscosso l’interesse concreto di imprese e investitori strategici italiani ed è finita preda (neppure troppo difficile) di un gruppo estero. Un polo francese, non quotato e non più grande di Parmalat. Un gruppo privato, Lactalis, ma fortemente appoggiato dal suo Governo. Un soggetto familiare un po’ indebitato che però si ripagherà immediatamente parte dell’acquisizione, assorbendo la liquidità del bilancio Parmalat. Nel frattempo, sui mercati finanziari – che a suo tempo avevano spolpato Collecchio – fondi e investment bank hanno nuovamente lucrato commissioni e plusvalenze: rastrellando titoli e mimando manovre, lanciando ripetuti ballon d’essai (ad esempio, a Granarolo, della Lega Coop), approfittando soprattutto dell’attendismo delle grandi banche italiane (da Intesa Sanpaolo a Mediobanca).
Forse hanno pesato anche un po’ di gelosa irresolutezza da parte di Bondi e magari i processi ancora in corso (a cominciare da quello principale di Parma, per bancarotta). Sta di fatto che un altro pezzo non proprio piccolo e trascurabile di Azienda-Italia se n’è andato: occupazione, rapporti consolidati con fornitori e banche, laboratorio d’imprenditorialità, effetto-indotto su varie dimensioni e territori.
Un Fondo strategico italiano già rodato sarebbe stata – è ora per il futuro – la risposta giusta per fronteggiare assalti esteri? Non lo sappiamo: lo potremo capire vedendo il Fondo all’opera. Ma ne avrà l’occasione? Mentre un Tremonti – indubbiamente logorato, ma non entriamo nel merito – presentava il Fondo, sui grandi “media” risuona di nuovo forte la voce di chi vuole non “difendere” ma “vendere” la proprietà delle aziende italiane: si tratti del BancoPosta o magari delle stesse big bancarie (UniCredit e Intesa Sanpaolo) le cui quotazioni in Borsa le rendono ormai tranquillamente scalabili dall’estero.
Nel 2011, d’altronde, c’è ancora chi non accetta che le Fondazioni siano presidio ultimo delle grandi istituzioni finanziarie nazionali o presidio primo della crescita delle ex municipalizzate attraverso fusioni e acquisizioni. Eppure proprio le Fondazioni, dagli anni ’90 in poi, sono state protagoniste del caso di successo del sistema bancario: privatizzato senza svendite (com’è avvenuto invece per Telecom) e fatto crescere per fusioni interne progressive aperte a partnership con gruppi europei. È stato attraverso questo percorso che le banche italiane sono state trattenute da un’eccessiva esposizione sui mercati globali che hanno poi collassato.
È stato così, d’altronde, che le Fondazioni hanno visto emergere nei loro bilanci quei valori patrimoniali che hanno consentito, tra l’altro, la ricapitalizzazione e la parziale privatizzazione della stessa Cassa depositi e prestiti; e il presidio “decentrato” di importanti quote di Eni, Enel, Poste, Terna. Il Fondo strategico è l’ultima emanazione di questo processo di privatizzazione del Sistema-Paese, nell’interesse del Paese, non solo degli euro-burocrati e degli euro-banchieri.
All’orizzonte – nel solito ruolo di commentatori-consulenti-candidati un po’ a tutto – rifanno capolino Romano Prodi, Giuliano Amato, Mario Monti. L’eterna “banda del ‘92”: cui mai è mancata – nei momenti di “buen retiro” – una qualifica prestigiosa e un buon compenso dalla Goldman Sachs.