È ormai a tiro il 1° maggio, la data di partenza del programma europeo Youth Guarantee (Garanzia giovani) che dovrebbe mettere in contatto i giovani con il mercato del lavoro. Il ministro Giuliano Poletti ha voluto sottolineare il carattere della ricorrenza (la Festa dei lavoratori) per l’avvio del piano promosso e co-finanziato dall’Ue per gli anni 2014 e 2015 in misura dei due terzi dell’ammontare complessivo di 1,5 miliardi di euro. Può essere l’occasione per mettere alla prova i servizi per l’impiego.
È un piano abbastanza equilibrato: nella ripartizione delle risorse nel biennio, alla Lombardia sono destinati 200 milioni, sostanzialmente un importo analogo a quello riservato alla Sicilia e alla Campania. Secondo l’impostazione iniziale, il pacchetto degli interventi è definito su di un target di 900mila giovani (di cui un terzo da individuare in Campania e in Sicilia) con meno di 25 anni. Il governo italiano – in relazione alle caratteristiche della disoccupazione giovanile – si è riservato di alzare l’asticella della ammissibilità fino a 29 anni.
Il programma prevede che a ogni giovane – che esca da un ciclo scolastico e non abbia immediatamente un’occasione di lavoro – vengano offerti alternativamente dal servizio pubblico in collaborazione stretta con agenzie private entro il termine massimo di 4 mesi: un servizio di orientamento scolastico e professionale; una opportunità di lavoro, o di addestramento, di formazione on the job o d’apprendistato, indirizzata verso gli skill shortages, cioè le migliaia di posti di lavoro che in Italia restano permanentemente scoperti per difetto di persone con le attitudini richieste; oppure, dove possibile, una forma di sostegno per l’avvio di lavoro autonomo o di impresa o un impegno nel servizio civile.
Si tratta insomma di un’ iniziativa rivolta a indurre le istituzioni preposte (i Centri per l’impiego e le Agenzie per il lavoro, tra di loro in sinergia) a occuparsi dei giovani e in particolare, a “stanare” i cosiddetti neet (coloro che non studiano più, non lavorano ancora e non si danno da fare per trovare un’occupazione), attivandoli, offrendo loro l’opportunità di un’esperienza lavorativa o formativa che comunque apra ai loro occhi il mondo del lavoro. Si tratta, infatti, di allargare il perimetro della forza lavoro (ovvero l’ambito degli occupati a cui aggiungere coloro che si attivano a cercare lavoro) piuttosto che quello dell’occupazione in senso stretto.
Il piano ha ottenuto l’approvazione dell’Unione europea; ora è venuto il turno dei programmi regionali, essendo le Regioni titolari delle politiche attive. E non tutte sono pronte a sottoscrivere le convenzioni. Soprattutto perché vi è la necessità di anticipare, per quota, le risorse dal momento che l’Ue non è disposta a finanziare i programmi per la sua parte con il rischio che rimangano sulla carta. In genere, le Regioni, almeno quelle più efficienti, sono impegnate in propri programmi di politiche attive a cui hanno destinato le risorse disponibili.
In Lombardia, per esempio, una Regione che ha una lunga esperienza nel campo del placement, dall’ottobre scorso è in funzione il Dul (Dote unica lavoro) rivolto al reimpiego dei disoccupati (quindi non solo giovani) e finanziato con 53 milioni, ormai tutti prenotati dalle Agenzie per il lavoro e dai Centri per l’impiego che hanno “preso in carico” circa 20mila casi, per ciascuno dei quali riceveranno l’incentivo previsto dalla delibera regionale soltanto a fronte di un risultato sul piano dell’occupabilità degli assistiti. I finanziamenti sono ripartiti con riferimento a ognuno degli obiettivi del piano, in modo anche da qualificare con maggiore specificità l’allocazione delle risorse sulla base dei piani regionali (ad esempio, se una Regione si concentrerà sul Servizio civile verrà finanziata in prevalenza per quell’obiettivo e non per altri ritenuti, nel piano stesso, non prioritari).
I giovani disponibili sono tenuti a registrarsi in vari siti web, non necessariamente nel luogo di residenza. Il ministero, allo scopo di guadagnate tempo, ha chiesto anche alle imprese di formalizzare delle proposte di lavoro, affinché sia possibile fare incontrare la domanda con l’offerta. Purtroppo però non è ancora partito il piano della comunicazione, per tanti motivi, comprensibili anche se non giustificabili.
Ha prevalso infatti l’esigenza di completezza dell’operazione (non ancora realizzata compiutamente) prima di dar corso alla comunicazione, onde evitare il rischio di creare delle aspettative a cui le strutture non erano ancora preparate a rispondere. Occorrerà cogliere questa occasione per promuovere un sistema integrato tra i servizi pubblici e le Agenzie per il lavoro private, attraverso un interscambio di esperienze, di buone pratiche e funzioni. È questa una delle principali sfide contenuta nella legge n. 92 del 2012, dalla quale dipende gran parte della tenuta del quadro delineato in quel provvedimento tanto discusso.
Intanto il decreto Poletti arriva al Senato, dopo le polemiche che ne hanno accompagnato l’approvazione alla Camera. È sicuramente ottima la scelta di Pietro Ichino in qualità di relatore in commissione Lavoro al Senato. Attenzione però. Pietro Ichino, giustamente, non rinuncia mai a proporre le proprie convinzioni. Così ha pronto un emendamento che introduce nel testo del decreto la sua proposta (ce ne sono tante di tenore simile) di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti finora confinato nel disegno di legge delega come misura sperimentale.
In sostanza, nei primi 36 mesi questo contratto potrebbe essere risolto ai sensi dell’articolo 2118 del codice civile a fronte del pagamento di un’indennità soltanto economica (due giorni di retribuzione per ogni mese di lavoro prestato). Si tratterebbe certamente di un notevole cambiamento della disciplina del recesso, ma continuiamo a pensare che tale misura non sarebbe competitiva con la maggiore flessibilità garantita dalla liberalizzazione del contratto a termine per tutta la sua possibile durata. Avrebbe più senso e sarebbe più conveniente confermare l’impostazione iniziale, contenuta nella delega, e avvalersi di un periodo di sperimentazione, piuttosto che cambiare per decreto e in modo tanto rilevante la disciplina del licenziamento individuale.