Già alcuni decenni or sono, nessuno avrebbe mai ipotizzato che l’Italia (la nazione che nel secolo precedente aveva sparso per il pianeta 26 milioni di esseri umani) sarebbe diventata una comunità multietnica (sono quasi 5 milioni gli stranieri regolari residenti, di cui quasi 2 inseriti nel mercato del lavoro). L’Italia, per di più, è e sarà, sempre più, sul confine di un mondo capovolto in cui i giovani continueranno a essere la parte prevalente di grandi continenti e creeranno un eccesso di offerta per soddisfare la quale, secondo gli scenari demografici dell’Onu, occorrerebbe creare, in media ogni anno, 3 milioni di posti di lavoro nei Paesi del Nord Africa, più di 15 milioni in quelli dell’Africa Sub Sahariana, 6 milioni circa in America Latina.
Il Rapporto sull’invecchiamento della popolazione, a cura della Commissione europea, del 2009 attribuisce al nostro Paese, oltre la metà del secolo, una quota di stranieri residenti di circa 12 milioni (2,5 volte quella attuale e superiore agli 11,6 milioni della Spagna, agli 8,2 milioni della Germania e ai 7,8 milioni del Regno Unito). Nel 2011, il Documento di economia e finanza (Def) ha previsto che fino al 2060 vi sia un flusso medio netto pari a 226mila unità. A prova non solo dell’ineluttabilità, ma anche dell’utilità di tali processi, il rapporto traccia, altresì, l’effetto di un ipotetico scenario zero migration sulla spesa pensionistica, cifrando un 2% in più sul Pil nel 2060.
Secondo il medesimo scenario – da oggi al 2030 – nei principali paesi europei la popolazione complessiva diminuirebbe di 27 milioni, quella in età lavorativa di 20 milioni, gli ultrasessantacinquenni sul complesso della popolazione salirebbero al 26,5%, sulla popolazione compresa tra 20 e 64 anni al 44%. L’immigrazione, dunque, rimanda, nel tempo, l’invecchiamento della popolazione e ne rallenta il conseguente declino. Ma non c’è alcun bisogno di preconizzare importanti cambiamenti nel futuro. Basta osservare il recente passato: nel 1981 gli stranieri erano lo 0,4% della popolazione, nel 1991 lo 0,6%, nel 2001 il 2,3% (in valore assoluto 1,3 milioni), nel 2010 il 7,5% (4,5 milioni).
Sono oltre 2 milioni gli stranieri occupati (il tasso di impiego del 62% contro il 56,5% degli italiani). Occorre comunque molta cautela nel trattare i dati riguardanti i lavoratori stranieri, dal momento che dagli anni ‘70 a oggi vi sono state, da noi, ben 11 tra sanatorie, regolarizzazioni ed emersioni, a cui va aggiunto, in via di fatto, il provvedimento del 2006, quando il decreto flussi estese a tutti i richiedenti il diritto di ottenere il permesso di soggiorno oltrepassando così la soglia inizialmente indicata in 170mila casi. Nel complesso, si calcola, che dei 4,5 milioni di stranieri residenti almeno 1,8 milioni fossero dapprima irregolari, poi regolarizzati.
Dal 2001, la popolazione straniera in Italia è quasi triplicata fino a raggiungere circa il 7% del totale. Ma non solo. Attraverso il lavoro, molti stranieri hanno compiuto dei significativi avanzamenti nel processo di integrazione e di radicamento. Quasi la metà degli immigrati non comunitari ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Nel 1992 erano circa 4mila le acquisizioni di cittadinanza per matrimonio e naturalizzazione; nel 2010 sono state 40 mila. Ben 78 mila bambini, nati nel 2010, hanno entrambi i genitori stranieri, mentre 27 mila sono figli di coppie miste. All’inizio del 2011 i minori extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia erano 760 mila, di cui circa 420 mila nati nel nostro Paese. Nell’insieme i minori stranieri iscritti all’anagrafe sono quasi un milione.
Tutto ciò considerato e ritornando ai temi del lavoro, se i livelli di occupazione dei lavoratori stranieri, anche durante gli anni più duri della crisi, hanno avuto un andamento complessivamente meno negativo, ciò è dovuto al fatto che è sempre aumentato il tasso di impiego degli stranieri. Nel 2010 rispetto al 2008 si sono riscontrati 863mila posti in meno di italiani parzialmente compensati da 330mila nuovi occupati stranieri (di questi 304mila sono lavoratori dipendenti, 264mila dei quali assunti a tempo indeterminato). Senza il lavoro degli stranieri, interi settori dell’economia (agricoltura, turismo, costruzioni, servizi alla persona, ma anche comparti dell’industria manifatturiera) incontrerebbero delle enormi difficoltà. In Italia, infatti, vi è ormai un gap strutturale tra domanda e offerta di lavoro – soprattutto nelle regioni del Centro-Nord – in conseguenza degli andamenti demografici (da anni in Italia nasce la metà dei bambini che nascevano negli anni Sessanta e vanno in pensione – e magari continuando a lavorare in altre forme non sempre regolari – più persone di quelle che sono pronte e disposte a entrare nel mercato del lavoro). Inoltre, molti degli impieghi disponibili vengono rifiutati dalla manodopera nostrana.
Si tratta sicuramente di dati statistici spuri, da attribuire in parte alle regolarizzazioni nel lavoro domestico e di cura; ma i processi in atto nel mercato del lavoro mettono in evidenza che, pure in un periodo di crisi come l’attuale, gli italiani non si prestano a sostituire gli stranieri nelle mansioni da loro svolte. La politica dell’immigrazione, nonostante i suoi limiti, fondata sulla correlazione tra lavoro e soggiorno ha finito per favorire l’integrazione assai più di una cultura acritica dell’accoglienza spesso fine a se stessa. Come se il nostro Paese fosse una sorta di terra promessa aperta a tutti, senza limiti e senza regole.
Processi delle dimensioni descritte indicano che l’immigrazione è certamente una necessità, ma può diventare pure un’importante risorsa. Sempre che l’integrazione sia corredata da un contesto di diritti non solo economici e sociali, ma anche civili e politici. Gestire tale complesso fenomeno con un regime di sostanziale apartheid sarebbe illusorio, prima ancora che ingiusto. Ma – ciò che è più grave – resterebbe confinato in un contesto culturale più arretrato della realtà concreta, della vita di tutti i giorni.
Sulla base del complesso di dati richiamati – che confermano la validità di una strategia che coniuga accesso e mantenimento al lavoro e integrazione – non ha senso considerare gli immigrati come degli ospiti temporanei e tollerati, pronti a lasciare il Paese una volta che sia conclusa l’esperienza di lavoro per la quale sono venuti, secondo una versione italiana del modello diGastarbeiter tedesco. Occorre porsi, con realismo e senza fughe in avanti, la questione della riforma della cittadinanza, a partire dai minori nati in territorio italiano. Di seguito, indichiamo i capisaldi di una legge che assuma un’impostazione temperata e ragionevole dello ius soli:
1 – Acquistano la cittadinanza italiana, al momento della nascita in territorio italiano, i figli di genitori stranieri legalmente residenti in Italia da almeno cinque anni e titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno a tempo indeterminato;
2 – I genitori di figli minori, nati in territorio straniero, hanno diritto di chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana per i minori stessi, se, in mancanza di qualunque altro titolo utile, sono in grado di far valere i requisiti di cui al punto 1 e se i minori hanno terminato almeno la scuola dell’obbligo, acquisendo il relativo diploma.
Ci auguriamo che il governo e la maggioranza siano in grado di fornire anche questo “servizio” al Paese.