Thailandia, anelito di resurrezione

Quattro ragazzi sono stati portati fuori dalla grotta di Tham Luang, Thailandia. Molte mani hanno tentato di afferrarli, alcuno ci hanno rimesso la vita. MAURIZIO VITALI

Gran bella notizia che mezzo mondo sognava. Quattro dei dodici piccoli calciatori thailandesi sono stati tratti in salvo dal sepolcro di acqua e fango e buio pesto e mancanza di ossigeno e silenzio perenne in cui erano rimasti imprigionati 16 giorni fa, nella grotta di Tham Luang, Thailandia, 500 km. a Est di Bangkok. Gli altri otto, si spera che siano già in salvo, o stiano per esserlo, insieme con il loro amatissimo coach Ake, oggi. Hanno tra gli 11 e i 16 anni; l’allenatore 25. Dicono che dalle viscere del sepolcro i dodici con il loro coach — ma sarebbe meglio dire fratello maggiore — una mattina abbiano sentito il lontano abbaiare di un cane, come il segnale di un soccorso. Un’altra volta, grida di bimbi che giocavano, come rimbalzo di un desiderio di vita gioiosa. Un’altra ancora, il canto d’un gallo, come ad annunciare un albore di ripresa. Può darsi che le orecchie dei sepolti si siano illuse: non il loro cuore, però. Il loro cuore era esigenza di rintracciare presenze, uscire dal nulla e ricominciare, cioè per dir proprio tutto realisticamente, anelito di risurrezione.

Non è così il vivere di ogni giorno, conteso tra sepoltura nei detriti dell’insostenibile quotidianità e insopprimibile bisogno di ossigeno?

E come saltar fuori da una bara d’acqua e fango a 800 metri di profondità? Occorre che il cuore si imbatta in una mano che ti afferri, un filo di Arianna che ti guidi, qualcuno che ti voglia, qualcuno — sì — che sia pronto a sacrificare la sua vita per la tua.

La mano offerta ai dodici è stata quella di Ekkapol Chantawong, questo il nome dell’allenatore della squadra di calcio di ragazzini tra gli 11 e i 16 anni. Uscirà per ultimo, se ce la farà. E’ lui il più malmesso. Nel fisico, perché si è privato della sua scorta di cibo che aveva nello zaino per darla ai suoi ragazzi. E nello spirito, perché si sente responsabile dell’accaduto, avendo condotto lui i ragazzi in quella grotta di avventura, di scoperta — come in altre gioiose spensierate occasioni in passato — e di morte. Ha implorato il perdono delle famiglie. “È una gran persona — lo hanno difeso molti genitori della scuola —, ha creato molto affiatamento nella squadra di calcio. E poi non è colpa sua: quando l’ha portata nelle grotte, non stava piovendo”. 

Sì, perché la pesante pietra fatta rotolare a sigillo della tomba è stata il soverchiante potere delle piogge monsoniche. Un altro padre ricorda: “Andavano, tutta la squadra, alle cascate, sconfinavano con le bici in Birmania. A me sembrava troppo piccolo per fare queste cose, e glielo dicevo. Ma non voleva saperne”. Ecco, un’ansia di vita, una bella compagnia, un fratello maggiore per forza un po’ scavezzacollo anche lui, se no che fratello sarebbe?

La mano che ti afferra è stata anche quella di Saman Gunan, 37 anni, uomo di punta dei Navy Seals, deceduto per amore eroico e difetto di ossigeno, inconsapevole emulo dell’eroico cristiano gendarme francese colonnello Arnaud Beltrame, donatore della propria vita per la salvezza di un ostaggio dei terroristi. La mano che ti afferra sono stati i 90 sub super specializzati — thailandesi, statunitensi, cinesi, europei… — capaci di fare squadra oltre i confini, concludere missioni impossibili e di rischiare a loro volta la vita.

Mano tesa sono stati anche le migliaia di studenti e professori dell’istituto di Mae Sai riuniti ogni mattina nel cortile per rispondere al “wai” che i loro compagni hanno mandato dalla caverna, il saluto a mani giunte.

Ma tutte queste mani — generose ed eroiche e pure non onnipotenti — possono anche non farcela e fallire. Apparentemente. In realtà, la grotta del sepolcro è grotta della natività per chi riconosce, in quelle mani protese, il segno di una Roccia su cui la nostra vita appesa a un filo può poggiare con sicurezza. Alla faccia della nostra fragilità e dei poteri, monsonici e affini.

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