Il Financial Times non ha affatto gradito l’oggettiva indecisione di Ben Bernanke. Alla City (ieri chiusa) sarebbe piaciuta una Fed più chiaramente orientata a una nuova fase di stimolo monetario: il cosiddetto “quantitative easing 3”. Le grandi banche d’affari non possono che tifare per la proroga della situazione di iperliquidità che da tre anni cura i sintomi delle gravissime ferite dei crack finanziari e i rischi d’infezione, senza peraltro porre rimedio alle cause e neppure prevenire effetti recessivi sull’economia. Alle banche “sistemiche” la liquidità continua a essere preziosa per dare ai mercati un’operatività molto artificiale: una spinta agli utili speculativi, ma anche una volatilità che, alla fine, scarica spesso nuove perdite sui portafogli dei risparmiatori. Quella liquidità, d’altro canto, continua a non tradursi in domanda reale di beni d’investimento o di consumo: la risorsa scarsa rimane la fiducia, quanto meno in America ed Europa, gli epicentri della crisi finanziaria e poi della lunga frenata del ciclo.
Ma alla City londinese avrebbe fatto piacere anche una Fed favorevole in anticipo all’ennesimo, attesissimo “super-piano” che il presidente Obama dovrebbe lanciare lunedì prossimo, inaugurando virtualmente la sua campagna per la rielezione. Un piano che avrà al suoi centro il “lavoro”, ma la cui parola-chiave rimarrà “stimolo”. Bernanke non ha voluto schiacciarsi preventivamente sulle politiche della Casa Bianca: ha sottilmente lamentato, anzi, un “vuoto di governo” nel costruire reali percorsi di ritorno alla crescita (in fondo la stessa critica alla base del contestatissimo declassamento del rating Usa da parte di S&P’s.).
In ogni caso, sull’altra sponda dell’Atlantico, l’emergenza continua a non essere il rigore e la banca centrale può sottrarsi alla “cattura” da parte dell’Amministrazione se non con mosse dilatorie. Con la speranza che i dati macro (come ieri quello sul progresso delle spese per consumi personali) continuino a tenere lontano lo spettro di una ricaduta recessiva (“double dip”) e quindi il pressing per nuove dosi di stimolo monetario.
In Europa, nel frattempo, il “mantra” politico-economico continua a essere il “rigore” (e la manovra italiana – riveduta e corretta ieri sera – ne è un tassello). L’acquisto di titoli pubblici italiani e spagnoli da parte della Bce – dopo il salvataggio della Grecia da parte dei paesi membri dell’Eurozona – ha segnato una svolta per certi versi traumatica.
Non è un caso che ieri il presidente uscente della Bce, Jean Claude Trichet – abbia rivendicato davanti al Parlamento europeo l’indipendenza della banca centrale, sollecitando comunque il varo definitivo della nuova “governance economica” europea: con la costruzione dell’Efsf (il nuovo “fondo salva-stati”) e con l’accelerazione del coordinamento delle politiche fiscali. L’inflazione resta al centro delle preoccupazioni istituzionali della Bce, ha ricordato Trichet, alla vigilia del cambio della guardia con Mario Draghi: è pericoloso pensare che la leva monetaria sia sufficiente a risolvere le crisi e che le banche centrali possano supplire alle politiche fiscali. Anche il nuovo direttore generale francese del Fmi, Christine Lagarde, non ha perso occasione per rintuzzare il sistema bancario, ancora povero di capitali: cioè non ancora guarito al punto da poter dettare regole o imporre ancora la propria centralità autoreferenziale.
Il dilemma rigore-stimolo, sia sul versante monetario che su quello dei bilanci statali (in prospettiva sovranazionali) rimane tuttavia irrisolto. I ritocchi alla manovra italiana ne sono – al loro livello – specchio fedele: la cancellazione del contributo di solidarietà e la scelta di non aumentare l’Iva confermano la preoccupazione di lasciare più ossigeno possibile alla domanda. E se l’intervento previsto sulle pensioni di anzianità misura la volontà di incidere sugli equilibri strutturali della spesa pubblica (come chiesto soprattutto dalle organizzazioni imprenditoriali), il taglio ai costi della politica resta una linea strategica piuttosto che un progetto circostanziato. Ancora una volta è un momento di attrito fra l’austerity chiesta dal cuore “carolingio” dell’Unione europea e la resistenza (per certi versi strumentale) delle economie più deboli di chiudere subito tubature di spesa pubblica che – nel corto periodo – continuano a far galleggiare l’economia. In questo contesto un po’ schizofrenico, perfino la lotta all’evasione fiscale può incontrare sottili obiezioni ai difensori a oltranza dello “stimolo”.
Il compromesso pragmatico tra Germania, Gran Bretagna e Svizzera sulla tassazione dei capitali “segretati” nei forzieri delle banche elvetiche non è del resto insoddisfacente in un mondo che lotta sempre più contro il riciclaggio? Eppure gli accordi sono stati siglati proprio in queste settimane. In fondo hanno ragione i banchieri centrali quando invocano “più politica”: più scelte chiare, che un tempo si sarebbero dette di “politica industriale”, di ristrutturazione dei sistemi produttivi e di tutte le infrastrutture di welfare. Dove Fed e Bce hanno meno ragioni è quando – nei fatti – non contribuiscono a mettere in discussione la centralità e il gigantismo della finanza globale, che continua a condizionare il ritorno di leadership delle democrazie politiche sull’economia di mercato libero “a una dimensione”.