Nell’anno di grazia 2013, a cinque anni dalla crisi iniziata con il fallimento di Northern Rock e Lehman Brothers, con in mezzo i miliardi di euro persi da JP Morgan a Londra e lo scandalo sul fixing del Libor (più una letteratura ormai infinita sulle pecche clamorose del capitalismo “anglo-americano”), su Il Corriere della Sera è apparso ieri un articolo a firma Francesco Giavazzi in cui, in estrema e brutale sintesi, si teorizza che il mantenimento del voto capitario in Bpm sia un ostacolo serio per l’aumento di capitale che, a sua volta, è un ostacolo alla concessione del credito che quindi mette in pericolo l’economia lombarda e poi quella italiana. L’articolo si chiude con un’amara riflessione sul fatto che se le regole odierne della Bpm, una popolare, impediscono di raccogliere capitali sul mercato per rafforzare il patrimonio, come premessa imprescindibile per erogare credito, allora bisogna cambiare le regole.
Sembra una verità molto parziale con nessi logici tra premesse e conclusioni molto deboli e forzati. Intanto, per quale motivo un anonimo investitore internazionale dovrebbe avere più paura a mettere un dollaro su una popolare italiana, o Bpm, rispetto a un’altra banca? Lehman Brothers aveva chiuso il trimestre precedente al fallimento con un core tier 1 dell’11% e siamo sicuri rispettasse tutti i crismi e i carismi della grande banca quotata capitalistica. I bilanci bancari sono strutturalmente opachi per tutti i regolatori e a tutte le latitudini, ma un attento e non superficiale confronto europeo di alcuni indicatori comunque significativi fanno squillare “warning” molto più forti in Germania, Olanda o Uk piuttosto che in Italia, dove le popolari sono una parte fondante del sistema.
Ci chiediamo se Giavazzi sia a conoscenza del rapporto Rwa/equity o assets/equity in Europa (con Deutsche bank e Socgen a più di due volte Unicredit, Intesa e Mediobanca). Oppure se abbia letto delle perdite miliardarie nel mitico Cib team di JP Morgan a Londra. O del Var di JP Morgan cambiato per un errore materiale di calcolo da un trimestre all’altro. O ancora dello scandalo sul fixing del Libor. La lista è non solo lunghissima, ma anche particolarmente imbarazzante per chi prima della crisi lamentava l’arretratezza italiana e la modernità del sistema “anglosassone”. L’arretrato sistema italiano ha avuto un supporto statale e “non di mercato” nettamente inferiore, per esempio, a quello americano, con i casi clamorosi di Fannie Mae e Freddie Mac.
Se i bilanci bancari sono opachi, e lo sono eccome, il rischio è strutturalmente inferiore in una popolare del nord Italia rispetto a una banca che naviga gli imperscrutabili mari della finanza internazionale con i bond in bolla, liquidità a tutto spiano, guerra delle valute, ecc. In alternativa, se quello che è successo in Bpm è sintomo di un sistema malato, perchè ciò non è vero per le evidenti mancanze che si sono verificate fuori dall’Italia nel sistema capitalistico puro (con la Fed che però compra tutto)? Depurando il sistema dalle eccezioni o dagli inevitabili errori, in buona o malafede, siamo così sicuri che il sistema che ha prodotto Lehman e che continua immutato ai nostri giorni per chiunque abbia gli occhi per vedere e vi partecipi sia il migliore? All’investitore “smart” tutto questo è chiaro (tant’è che Bonomi ha messo i soldi sulla popolare Bpm e non su Deutsche Bank o Goldman Sachs).
I 500 milioni di euro di Tremonti bond su cui Bpm pagherebbe il 9% di tasso di interesse – e che i soldi dell’aumento andrebbero a restituire – rappresentano circa l’1% della raccolta della banca. Il nesso tra patrimonializzazione e concessione del credito non è così lineare e i discutibilissimi interventi europei sulla patrimonializzazione delle banche hanno sortito effetti quanto meno controversi con ponderazioni degli attivi non sempre logiche.
Mentre però Il Corriere della Sera, edito da una società che pure a fatica rientrerebbe nell’empireo della perfetta società quotata, pubblicava questa analisi, il Financial Times ospitava a pagina 9 un’interessantissima analisi dei due professori dell’università di Chicago, Posner e Weyl. Il tema trattato era la “governance” delle società quotate in generale e americane in particolare in cui il management ha pochi limiti e gli azionisti hanno poco influenza sia sulla composizione del cda che sulle transazioni più importanti. L’obiettivo sarebbe dare agli azionisti un ruolo più importante nella corporate governance. Ecco allora che i docenti americani si pongono il problema di investitori troppo poco informati e a cui addirittura non importa votare (essendo il voto secondario al bene finanziario rinchiuso nel possesso dell’azione); “occorre un sistema che consenta agli azionisti con visioni più forti sul futuro della società di pesare (nella decisione) senza permettere a pochi insiders o raiders (speculatori) di passare sopra la testa di tutti gli altri”.
Ecco la soluzione proposta: un voto si paga 1 dollaro; due voti 4 dollari, tre voti 9 dollari e così via. L’azionista che ha più interesse (economico) a una fusione pagherà di più, mentre una fusione sarà approvata se e solamente se accresce il valore della società (e non – aggiungiamo noi – quello di un singolo azionista). Chi ha più interesse economico in un’operazione pagherà di più. I managers e gli azionisti di maggioranza, dicono sempre i due docenti, non saranno in grado di mandare avanti transazioni per il proprio interesse a spese di quello degli altri azionisti.
Questa proposta, pubblicata incredibilmente nello stesso giorno dell’articolo di Giavazzi, non interroga, con sorprendenti similitudini, anche le note vicende di Bpm con un fondo di private equity, con i suoi legittimi obiettivi di ritorno sul capitale, che cerca di trasformare una governance storica? Non mette sotto un’altra luce, ben più benigna, il sistema del voto capitario contro cui ci si scaglia? Non pone forse domande e preoccupazioni legittime su una governance, quella “puro- capitalistica”, che pure ha dei limiti evidenti?
Gli “americani” che scrivono sui giornali italiani sembrano un po’ in ritardo non solo rispetto a una crisi che ha demolito l’idea di un sistema più “perfetto” e moderno degli altri, ma anche rispetto all’“America” e a un dibattito che sembra molto più “avanti” e che prende in considerazione quello che è successo negli ultimi cinque anni. Certi articoli potevano andare nel 2007, oggi siamo in ritardo di cinque anni abbondanti. Fare i compiti a casa.