Con l’arrivo del freddo autunno torniamo a parlare degli eroi della chitarra, e parliamo di un grande vecchio delle sei corde, ormai prossimo a compiere 67 anni: Neil Young. È impossibile riassumere, sia pur sommariamente, la produzione di questo artista, sterminata come i grandi spazi del suo amato Canada, la terra da cui proviene. A parte l’esperienza iniziale con i Buffalo Springfield (in cui militava anche Stephen Stills) e le varie parentesi con il cosiddetto super gruppo Crosby Stills Nash & Young, abbiamo una lunghissima carriera solista, in cui Neil ha toccato un gran numero di generi musicali. Ma in ogni caso il suo songwriting e il suo stile chitarristico sono legati principalmente a due mondi sonori, forse scontati: il versante acustico e quello elettrico. Si presentano da subito quasi appaiati nella carriera del cantautore; i Buffalo Springfield sono quasi esclusivamente elettrici, ma il disco d’esordio a suo nome è principalmente acustico. Addirittura, in uno dei suoi lavori più famosi, Rust never sleeps, del 1979, dividerà proprio il disco in due, una facciata acustica e una elettrica, e così farà pure in una infinità di tour. Ma se ogni comico ha una spalla, così pure Neil Young ha avuto, nel corso di tutta la sua quarantennale carriera, una spalla musicale che a sprazzi lo ha accompagnato in tutto il suo percorso. Si tratta di una band che incontrò nel 1969 e con cui realizzò il suo secondo album solista, Everybody Knows This Is Nowhere. Li ribattezzò lui stesso Crazy Horse e il loro suono, ruvido ed essenziale – chitarra elettrica, basso e batteria – andò a costituire un marchio di fabbrica, perfetto contraltare al sound chitarristico di Young.
Ma andiamo con ordine, e partiamo dalla dimensione acustica. In quel periodo fra la fine degli anni ’60 e la metà dei ’70 successe praticamente tutto. Basta sfogliare la classifica di vendita degli album di quel periodo per trovare, talvolta nello stesso mese, delle pietre miliari rimaste come fari luminosi nella storia della musica a venire. Una di queste tappe imprescindibili è sicuramente Harvest, il disco che Young fece uscire nel 1972, e che seguiva l’altro capolavoro After the Goldrush. Nel periodo fra questi due lavori il timido e impacciato canadese gira in completa solitudine e partecipa a degli show televisivi, in cui talvolta esegue addirittura delle canzoni che non hanno ancora assunto la loro forma definitiva. Entriamo un po’ nel personaggio con il super-hit Heart of Gold. Alcune avvertenze: per un paio di minuti Neil armeggia nelle tasche del suo giaccone per trovare l’armonica giusta: non scoraggiatevi, o al limite andate subito a 1:45 dove inizia la canzone. E immaginatevi (o andate a sentirvi l’originale) i background vocals (si insomma i cori) realizzati su questo pezzo e su Old Man da niente meno che James Taylor e Linda Ronstadt.
Non c’è molto da dire sullo stile chitarristico di Neil Young in versione acustica: la sua Martin Pro è lo strumento con cui essenzialmente scrive le canzoni, che risultano essere delle ballate folk. La zampata è consistente, l’attacco della mano destra alle corde contiene sempre un forte impulso percussivo, che spesso ricorda l’andatura ritmica di certi canti dei Nativi Americani, quelli che fino a non molti anni fa si chiamavano pellerossa o indiani d’America. Beh, questo è il suono della chitarra acustica di Neil Young, perentorio, percussivo, persistente. Su questo accompagnamento sono nate alcune delle più belle canzoni del folk-rock, a partire dalla già citata Old Man – andatevela a cercare nei video correlati, di fianco a Heart of Gold – ma anche Tell Me Why, Harvest, The Needle and the Damage Done, Already Onee molte altre.
Ma passiamo al suono elettrico di Neil Young, e al suono elettrico con i Crazy Horse. Anche qui la tecnica è rudimentale, ma l’interpretazione è sempre ricca di intensità, talvolta di drammaticità. Si può averne un’idea abbastanza precisa ascoltando questo brano del 1979, Powderfinger, tratto da Rust Never Sleeps.
Non è un puro compiacimento nostalgico vedere quegli stessi tre musicisti – Frank Sampedro alla chitarra, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria – dividere ancora il palcoscenico trentatré anni dopo, con lo stesso sound, accelerando il ritmo come dei ragazzini alle prime armi, con la stessa energia e la stessa voglia di raccontare il suono che ha cambiato un mondo.
E il viaggio continua, riprendendo le stesse coordinate con il nuovo lavoro di Neil Young, appena uscito e subito recensito da Paolo Vites su queste stesse pagine virtuali: Psichedelic Pill. Rimando all’articolo di Vites per i dettagli, aggiungo solo un ultimo video, uno dei brani del disco suonato live qualche tempo fa, mettendo l’accento su un paio di particolari. Quando si tratta di Neil Young o più in generale di questo folk-rock che alla fin fine ha fatto da padre al Grunge, si parla sempre di ‘estenuanti galoppate chitarristiche’. Alla fine è vero: erano vere e proprie sfide all’Ok Corral i duetti fra il fraseggio blues di Stills e lo stile nervoso di Young, fin dai tempi dei Buffalo Springfield; ed oggi nuovamente Neil galoppa sul cavallo pazzo in assoli semplici, sgrammaticati ed estremamente efficaci. Potranno essere estenuanti, potranno non piacere a tutti, ma queste galoppate riaprono l’accesso ad un mondo lontano, ad una maniera di suonare percorribile per tutti e non solo per gli iper-tecnici, ad un tempo in cui se non si è ancora finito di comunicare una cosa, si va avanti, con un passo regolare, senza fretta, per lunghi minuti, come su una lunga freeway in mezzo al deserto. Long live Neil!