Sono diversi i punti di interesse nell’intervista di Giovanni Minoli a Guido Barilla, presidente dell’omonimo gruppo, al convegno per il centenario della nascita del padre Pietro, scomparso una ventina di anni fa. Innanzitutto, vi è la conferma della solidità di una società completamente italiana e che viene identificata in larga parte con il prodotto italiano per eccellenza: la pasta. Il Gruppo Barilla esporta i suoi prodotti in un centinaio di paesi, ha 42 siti produttivi, di cui 28 all’estero, impiega oltre 13000 persone e ha fatturato nel 2011 circa 4 miliardi di euro. Eppure è rimasta un’azienda famigliare, che ribadisce la sua attenzione di non andare in Borsa perché, dice il presidente, “l’azienda è forte e sa vivere delle sue gambe e della sua identità.” La stessa scelta di un’altra grande multinazionale rimasta in famiglia, la Ferrero, nonostante un fatturato in crescita a 7,8 miliardi di euro e una presenza diffusa in tutto il mondo.
La storia delle due aziende è parallela: Barilla partita da un negozio di panettiere, Ferrero da una pasticceria, Barilla alla quarta generazione, Ferrero alla terza, per entrambe vi è un protagonista del successo, Pietro Barilla e Michele Ferrero. Entrambe le aziende hanno sempre avuto una completa partecipazione della famiglia, per cui possono essere definite a pieno tiolo aziende famigliari.
Accanto al rifiuto della Borsa, l’altro dato interessante è la capacità di internazionalizzarsi rimanendo compiutamente italiane. Nel convegno si è ricordato come Pietro Barilla fu costretto dalle difficoltà in cui versava l’azienda, nel 1970, a vendere il pacchetto di maggioranza all’americana Grace, cosa da lui considerata un “tradimento” della sua responsabilità di imprenditore. Infatti, nel 1979 ricomprò la maggioranza dagli americani. Una strada, quindi, abbastanza diversa da quella seguita dagli Agnelli per Fiat e qui arriva un altro punto interessante, cioè la critica alla Fiat per essere uscita da Confindustria, dopo “averla sfruttata per 30 anni.” La osservazione è tanto più rilevante in quanto Guido Barilla è a sua volta estremamente critico nei confronti dell’associazione, ma ribadisce che “non si tradisce il partito e Confindustria è il partito degli industriali.”
Quanto esposto finora chiarisce come si possa essere industriali di successo seguendo filosofie e, diciamo, “antropologie” di azienda estremamente diverse, ma ribadisce anche un punto che spesso viene dimenticato nelle discussioni più o meno teoriche, cioè interessate: il capitale umano rappresentato da un vero imprenditore, piccolo o grande che sia. Contraddistinto, oltre che da intuizione e creatività, dal buon senso, come ricorda Guido del padre.
Ma quali sono le critiche di Barilla a Confindustria? Sostanzialmente di essere una istituzione sorpassata, non più capace di affrontare il futuro, troppo legata a modelli lobbistici. Barilla chiarisce che la responsabilità non è del suo attuale presidente, perché risale a diversi anni addietro, ma ribalta su Confindustria il monito di Squinzi alla politica: “Il tempo è scaduto”.
Dall’esterno, è difficile non condividere il giudizio che Confindustria sia ormai diventata parte dell’inefficienza del nostro debolissimo sistema-Paese, che anch’essa soffra di mancanza di cultura e di strategia, incapace di proposte che possano concorrere a determinare quella politica industriale di cui tanto si parla, ma che continua a essere inesistente. La sensazione è quindi che anche le imprese, come molti italiani, siano costrette a darsi da fare da sole per sopravvivere e consolidare le proprie posizioni, quando non debbano addirittura difendersi da Stato, caste e lobby varie.
A quanto pare, ciò accade non solo per le Pmi, ma anche per le grandi imprese, almeno per quelle che non operano in “riserve” al riparo della concorrenza, o che non dipendono dalle elargizioni dello Stato. Pur assolvendolo personalmente, Barilla ha lanciato una bella sfida a Squinzi, ma l’impressione è che i due stiano combattendo dalla stessa parte della barricata. La Mapei, l’azienda di Squinzi, è anch’essa familiare, non quotata in Borsa, già alla terza generazione, è leader mondiale nel suo settore, completamente internazionalizzata, presente in 30 Paesi con 62 siti produttivi, con più di 2 miliardi di fatturato e dà lavoro a 7500 persone.
Non è che, governo o meno, Confindustria o meno, sia questa la strada italiana per uscire dalla crisi, “scuotendo la polvere dai calzari” verso chi non vuole ascoltare?