Una “giornata di ordinario crollo” presso le Borse di tutt’Europa non peggiora, in fondo, più di tanto un quadro di aspettative più confuso che incerto. I listini azionari – e in parte quelli obbligazionari – cadono perché l’Europa non trova un accordo finale sul salvataggio della Grecia e quindi sulla stabilità dell’euro?
In questo caso sul banco degli imputati è la “politica”: anche se, in realtà, alla radice dell’instabilità c’è un confronto tutt’altro che superficiale tra politica (governi ed elettorati) e mercati dopo la grande crisi finanziaria. E sulle regole del gioco dell’“euro 2.0” è certamente in corso un chiarimento strutturale.
Un passaggio laborioso, doloroso: la Grecia ha certamente perso una parte della sua sovranità, l’austerity che un Paese come l’Italia dovrà affrontare ridurrà in termini probabilmente strutturali i parametri economici di famiglie e imprese. Logico comunque che gli investitori istituzionali considerino la cosiddetta “crisi dell’euro” un cosiddetto “tema di mercato” e non perdano occasione per giochi speculativi di brevissimo periodo (il caso italiano in agosto è stato esemplare).
Ma le Borse stanno certamente scontando anche fattori più fondamentali, distinti dalla crisi greca e a essa collegati da rapporti di causa-effetto non lineari. Il rallentamento dell’economia si sta trasformando – nella Ue più che negli Usa – nella temutissima recessione “double dip”?
Qui la diagnosi sarebbe completamente diversa: gli investitori sarebbero preoccupati della perdita di competitività dell’Azienda-Europa e dei suoi paesi-membri. Preoccupati di economie dove i consumatori non comprano, gli imprenditori non investono e un euro forte relativamente al dollaro non facilità l’export. Su uno sfondo meno congiunturale, le Borse europee sarebbero poco appetibili perché è in corso un trasferimento di lungo periodo di dinamismo economico verso paesi ormai ben “emersi”.
Terzo e non ultimo spunto di riflessione: quanto incide sulle Borse europee – popolatissime di grandi banche – la salute ancora cagionevole di molti colossi creditizi e le loro deboli prospettive reddituali? Anche in questo caso la scelta di situazioni è ampia. Le banche italiane non sono state salvate di peso dal loro Governo, ma scontano gli ingenti portafogli di titoli di Stato attaccati dalla speculazione perché zavorrati da un debito elevato.
Le banche francesi e tedesche non hanno ancora i bilanci ripuliti dalle scorie della grande crisi iniziata nel 2008 e sono ancora imbottite di bond pubblici periferici dell’Eurozona (anche in questo caso chi è stato responsabile di cosa, tra banche e Strati, prima e dopo lo scoppio della bolla della finanza derivata?). Non da ultimo, il caso Ubs ha confermato la nuova presenza di “mine nascoste” e il prosieguo di pratiche di “moral hazard” non sufficientemente contrate da sistemi interni ed esterni di vigilanza.
“Soluzione finale” per l’euro, per la ripresa, per la guarigione del sistema finanziario: non è facile capire quale dei tre impegni sia più praticabile e/o più importante per risollevare le Borse europee. Che, tra l’altro, potrebbe non essere la priorità di milioni di cittadini europei.