Maurizio Lupi ha compiuto un gesto raro: quello di dimettersi dal governo senza essere indagato. Per spiegarne le ragioni, Matteo Renzi e i suoi fedelissimi Pd (che non hanno speso una parola per difenderlo) hanno coniato l’espressione «opportunità politica». Si è scelto di mettere l’esecutivo, e l’alleanza Pd-Ncd che lo sostiene, al riparo da ulteriori tempeste. Guarda caso, il turbine di intercettazioni squadernate nei giorni scorsi dai giornali si è placato. Lupi è uscito di scena, e improvvisamente è scesa la bonaccia. Ieri è tornato in famiglia, accanto ai suoi cari coinvolti indebitamente in polemiche estranee a profili penali.
L’inchiesta di Firenze riapre il tema dell’uso politico della giustizia culminato in talune vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. L’inchiesta-simbolo, quella che nel 1994 portò all’avviso a comparire consegnato a Napoli nel mezzo di un vertice internazionale sulla criminalità organizzata, si è chiusa con un’assoluzione. L’elenco delle indagini finite in nulla dopo aver modificato assetti istituzionali — oltre che danneggiato le persone coinvolte ingiustamente — è lungo. Esso comprende i fascicoli aperti da Luigi De Magistris, che ieri indossando la fascia tricolore da sindaco (condannato in primo grado per abuso d’ufficio a 15 mesi di reclusione, pena sospesa) ha accolto con devozione il Papa a Napoli consegnandogli le chiavi della città: da pm di Reggio Calabria indusse alle dimissioni l’allora ministro Clemente Mastella e provocò indirettamente la fine della legislatura nel 2008. In nulla è finita la «madre» di quell’indagine, chiamata «Why not», che spedì nel tritacarne l’imprenditore calabrese Tonino Saladino, nel silenzio dei giornali che l’avevano messo alla gogna.
Il manager Silvio Scaglia è stato un anno agli arresti (tre mesi in carcere e il resto ai domiciliari) per le accuse di frode fiscale e associazione per delinquere prima di essere assolto con formula piena: alla Leopolda del 2013 Matteo Renzi prese il suo caso come emblema di una riforma della giustizia non più eludibile. Oggi assistiamo allo spettacolo di un Renzi diventato premier che reagisce tiepidamente alle bacchettate del sindacato delle toghe e pensa a un magistrato per risolvere le grane del Paese, dal ministero delle Infrastrutture al commissario per il Giubileo, all’autorità di controllo sugli appalti. Chissà se è un caso che proprio ieri la procura di Genova abbia chiesto l’archiviazione per il papà di Matteo Renzi, accusato di bancarotta fraudolenta per il fallimento della sua società Chil Post (di cui il figlio era stato dipendente nonché amministratore).
L’uso politico della giustizia spesso si è esaurito nell’effetto mediatico degli avvisi di garanzia, degli arresti, delle intercettazioni (spesso penalmente irrilevanti) messe a disposizione dei giornali. Magari i processi sono finiti con assoluzioni o prescrizioni, quando si sono celebrati; ma l’esito «vero» delle inchieste è stato ottenuto subito, quando la mannaia delle procure si è abbattuta sul collo delle vittime designate.
Ora il meccanismo si è perfezionato: Lupi è andato a casa senza nemmeno un avviso di garanzia, sull’onda di frasi inopportune intercettate e qualche comportamento opaco. Ancora una volta il potere giudiziario ha condizionato la vita di un governo ben prima, e con molta maggiore incisività, che giungesse il verdetto definitivo di una corte.
La legge Severino ha tolto di mezzo Berlusconi, ma ora al Pd non ripugna studiare un modo per aggirarla così da non compromettere l’eventuale elezione a governatore di Vincenzo De Luca, vincitore delle primarie ma condannato in primo grado e quindi destinato alla decadenza immediata. Né viene sollevata alcuna questione di «opportunità politica» per i quattro viceministri o sottosegretari del governo Renzi tuttora indagati. Anzi, ancora ieri il capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza ha ribadito che il suo partito resta «garantista» fino al terzo grado di giudizio. Ma per Lupi il ragionamento non vale: altro che Cassazione, non è manco indagato…