Nonostante i capelli bianchi, Paolo Romani è come il bimbo della fiaba di Andersen che al passaggio dell’imperatore urla la drammatica verità che tutti vedono e tutti tacciono: il re è nudo. E siccome sua maestà (vent’anni fa si sarebbe detto Sua Emittenza) è Silvio Berlusconi, il paragone regge a meraviglia. Nella fattispecie, la nudità riguarda la crisi di Forza Italia. Che dura da almeno quattro anni, da quel 2011 in cui il Cavaliere cedette alle pressioni dello spread, e si è aggravata con la condanna in Cassazione.
Milano è un luogo simbolico per gli azzurri, la culla del movimento. Il Pirellone, con Formigoni, è il palazzo del potere tenuto più a lungo dal partito. Lì ieri si stava svolgendo un convegno per lanciare la campagna elettorale del dopo-Pisapia. E lì Romani ha lanciato il sasso nella palude forzista. Non come Raffaele Fitto, che combatte contro il Cavaliere una personale battaglia di potere per la successione. Romani è capogruppo al Senato, ex ministro delle Comunicazioni, forzista della prima ora, uno dei parlamentari più vicini a Berlusconi. Le sue parole di autocritica non sono un guanto di sfida al leader, e per questo assumono un peso ancora maggiore.
«Abbiamo rovinato il partito» ha scandito elencandone le magagne: non c’è selezione della classe dirigente, nessuno parla di contenuti (si fanno soltanto «riunioni finte dove diciamo che tutto va bene»), «siamo divisi, litigiosi, i peggiori di noi vanno in Tv a dire stupidaggini. Dalle intransigenze stile Brunetta alla melassa cui appartengo, non abbiamo più capacità di dialogo». Romani ha messo addirittura in dubbio che Forza Italia possa essere ancora capace di federare il centrodestra tra Alfano e Salvini. Ai quali peraltro ha riservato commenti ben poco federativi: «Salvini dice cose terrificanti, Alfano fa il servo sciocco di Renzi».
Ovviamente Brunetta si è offeso («meglio intransigenti che inesistenti») e Giovanni Toti ha cercato di metterci una pezza mentre la frangia più critica ha paragonato Romani a chi diventò antifascista dopo il 25 aprile. Il che conferma la sua diagnosi di irredimibile litigiosità interna. Aggiungiamo i retroscena secondo i quali Berlusconi vorrebbe mettere il partito in mano a Mara Carfagna, i sospetti sulla pattuglia parlamentare di Verdini che sarebbe pronta a saltare nel Partito della Nazione di Matteo Renzi dopo il (probabile) flop elettorale azzurro alle regionali, le tensioni con Fitto che comunque non intende abbandonare Forza Italia.
È una fotografia impietosa. Ma Berlusconi ancora non si decide a intervenire. Nella telefonata di ieri all’evento del Pirellone, il Cavaliere si è limitato a lanciare slogan preelettorali, del tipo: siamo la maggioranza naturale; dobbiamo riportare la gente a votare; dobbiamo convincere questi 24 milioni di moderati a tornare alle urne; stiamo individuando il miglior candidato sindaco per Milano; io sarò in campo con voi per riconquistare Palazzo Marino; l’Expo è merito nostro, è una vittoria del centrodestra; la sinistra cambia facce ma pensa soltanto al potere. Evvai con il revival.
Non è sciolto nemmeno uno dei nodi intrecciati in questi anni di sostegno dato e poi sottratto alle riforme dei governi Monti, Letta e Renzi. Nebbia fitta sulle alleanze da stringere in vista delle regionali (e non solo). Silenzio sulla scelta delle candidature. Vuoto sugli organigrammi interni. E intanto Renzi continua con le politiche riprese da Berlusconi: dopo il braccio di ferro con l’Europa per avere meno rigore, dopo la cancellazione dell’articolo 18 e un’ipotesi di bavaglio alle intercettazioni, ecco la nuova Rai a servizio del presidente del Consiglio e l’idea di nominare ambasciatori non più soltanto diplomatici, ma anche imprenditori e personalità che rappresentino «l’Italia del fare». Renzi gli sta mangiando il terreno sotto i piedi e Berlusconi non se ne accorge.