L’oro, si sa, è il bene rifugio per antonomasia, quello che tesaurizza le aspettative di crisi. E, in suo nome, sono accadute molte cose che apparivano inspiegabili o, quantomeno, strane, come vi ho già raccontato tempo fa. Facciamo un salto indietro. Ricordate la guerra in Libia, l’incredibile Vietnam in cui si era trasformata, con i ribelli che tentavano l’assalto e le forze lealiste di Gheddafi che riuscivano sempre a difendere le posizioni? Bene, ricorderete anche che nell’arco di tre giorni la situazione si sbloccò e i ribelli poterono mettere il naso fuori da Bengasi: armi dall’Occidente? Servizi segreti francesi e britannici in aiuto? Illuminazione divina?
No. La svolta libica nasceva in Venezuela, più esattamente nella richiesta da parte di Hugo Chavez di rimpatriare le quasi 100 tonnellate d’oro stivate a Londra. Cosa accadde? L’oro, come sempre accade, era concesso in leasing alla Banca d’Inghilterra e questa, ovviamente, lo aveva per così dire “movimentato”, ovvero non lo possedeva più fisicamente nei caveau. Per ridarlo al suo legittimo proprietario, doveva quindi ricomprarlo sul mercato. Questo provocò il rapido incremento del prezzo, fino a un massimo di 1.881 dollari l’oncia e svelò come nel mondo ci fosse una clamorosa mancanza di oro fisico, visto che i prezzi dei futures a breve scadenza erano più alti di quelli a lunga scadenza.
Occorreva intervenire e quale miglior soluzione che mettere le mani sulle quasi 150 tonnellate di riserve auree libiche stipate in un caveau sul confine meridionale del Paese, dando vita a un’offensiva in grande stile? Così facendo, il Venezuela avrebbe riavuto ciò che era suo e il mercato non avrebbe subito nuovi, pericolosissimi scossoni per chi gioca con i futures e per chi, come Londra e New York, gode dello status di caveau dell’oro mondiale ma di fatto di lingotti fisici ne ha davvero, davvero pochi (basti ricordare lo scandalo delle barre di tungsteno dipinte in color oro e conservate alla Fed, come denunciato da Ron Paul).
Bene, questo prologo, spero non troppo noioso, era propedeutico al contenuto dell’articolo di oggi, ovvero il fatto che la Bundesbank, nel 2001, ritirò i due terzi delle sue detenzioni d’oro presso la Bank of England, stando a quanto testimoniato da un report confidenziale reso noto mercoledì. La rivelazione ha fatto seguito alla sacrosanta richiesta da parte degli enti preposti al controllo del budget tedesco, affinché il governo verificasse sul posto che le riserve auree depositate a Londra, New York e Parigi esistessero davvero fisicamente. La Germania ha 3,396 tonnellate di oro, pari a un controvalore di 143 miliardi di euro, la seconda riserva al mondo dopo quella degli Usa (ammesso e non concesso che quello statunitense non sia davvero tutto tungsteno) e la grandissima parte di essa è stata stivata all’estero durante la Guerra Fredda nel timore di un attacco e un’invasione sovietica.
Circa il 66% è conservato alla Fed di New York, il 21% alla Bank of England e l’8% alla Banque de France: la Corte degli Uditori tedesca, però, in tempi di crisi nera ha ritenuto il caso di non fidarsi e ha detto chiaro e tondo ai legislatori attraverso un durissimo report che «le riserve auree non sono mai state verificate fisicamente» e ha ordinato alla Bundesbank di assicurarsi l’accesso ai siti di stoccaggio. Di più, sempre la Corte ha ordinato il rimpatrio nei prossimi tre anni di 150 tonnellate per verificarne qualità e peso, tanto più che Francoforte non ha un registro di numerazione delle barre d’oro.
Ma ecco la parte più interessante e inedita: stando al report, la Bundesbank avrebbe ridotto le sue detenzioni d’oro a Londra da 1440 tonnellate a 500 tonnellate tra il 2000 e il 2001, ufficialmente «perché i costi di stoccaggio erano troppo alti». A quel punto, il metallo fu trasportato per via aerea a Francoforte. Il tutto avvenne mentre l’allora Cancelliere dello Scacchiere britannico, Gordon Brown, stava svendendo a mani basse le riserve auree britanniche – ai prezzi minimi sul mercato – e con l’euro da poco introdotto come valuta di riferimento anch’esso ai minimi di 0,84 sul dollaro.
Perché questa mossa? Semplice, per evitare che l’oro andasse in giro e non tornasse più, insomma una scelta difensiva. Sia perché la Bank of England stava esagerando con il leasing dell’oro che deteneva, sia perché il governo Blair aveva deciso di vendere le riserve per fare cassa, sia perché le barre d’oro tedesche non avevano un registro e un codice identificativo, quindi non erano reclamabili in modo certo. Insomma, il rischio è quello di non poter richiedere con prove e certezza il proprio oro e diventare, legalmente, solo un creditore generale con un conto in metallo.
Più di dieci anni fa, quindi, la Germania ha avuto la lungimirante idea di mettere al sicuro gran parte delle proprie riserve e ora la Bundesbank parla di possibile riallocazione delle stesse, ovviamente sempre per motivi di sicurezza, anche se «non abbiamo dubbi sull’integrità e l’indipendenza dei nostri custodi» e se ufficialmente dice no ai controllori di Stato e alla loro richiesta di un inventario. Una fiducia così granitica che, giustamente, ha preferito riportarsi l’oro a casa undici anni fa – e ora si permette di dire che quello che resta sta bene all’estero e non va rimpatriato e controllato: grazie, ha portato a casa il grosso dieci anni fa! – e sottrarlo allo schema Ponzi del mercato repo, il quale ontologicamente sconta il rischio di controparte sul collaterale, come ci ha insegnato il caso del fondo MF Global. Insomma, se si rompe la catena repo sul mercato aureo da parte di custodi-prestatori e soggetti che operano nel leasing, chi può davvero reclamare il proprio oro se non si sa dove sia e non esista un registro e dei numeri seriali?
Quanto emerso in questi giorni grazie all’iniziativa dei regolatori tedeschi è particolarmente interessante per il nostro Paese, detentore della quarta riserva aurea al mondo dopo Usa, Germania e Fmi. Lo scorso 6 ottobre, infatti, la Consob, l’ente per la vigilanza sui mercati guidata da Giuseppe Vegas, ha reso noto che «per cercare di abbattere il debito pubblico si possono usare senza tanti problemi le riserve auree della Banca d’Italia. Palazzo Koch, infatti, può liberamente disporre di tutti i propri beni mobili e immobili, nei limiti in cui tali atti di disposizione non incidano sulla capacità di poter trasferire alla Bce le attività di riserva eventualmente richieste». Un secondo attacco dopo quello della scorsa estate, quando la Commissione aveva proposto la costituzione di un superfondo a cui trasmettere, tra le altre cose, le riserve di Bankitalia per cercare di aggredire un debito pubblico ormai di 2mila miliardi di euro.
Sempre la Consob ricorda che la legge sul Risparmio (l. 262/2005) ha stabilito che Bankitalia «è istituto di diritto pubblico», nonostante le quote di partecipazione al capitale di palazzo Koch oggi ancora detenute dalle banche. Sul punto sarebbe dovuto intervenire un regolamento governativo, che però ancora non c’è. Un tassello effettivamente mancante, per la Consob, secondo la quale «una volta emanato il citato regolamento lo Stato, quale unico azionista della Banca d’Italia, potrebbe liberamente disporre di tutti i beni della Banca d’Italia che, come l’oro, non sono in alcun modo funzionali allo svolgimento dei compiti istituzionali del Sebc».
Ma dove sono le circa 2450 tonnellate d’oro, circa 110 miliardi di euro, di riserve auree italiane? Presso Bankitalia? Non certo tutte: una parte è custodita negli Usa e a Londra. Se la Bundesbank dieci anni fa ha deciso che era meglio tenersele vicine, non sarebbe il caso che, prima di discutere le proposte della Consob, qualcuno si prenda il disturbo di dare una controllatina? In che percentuale le nostre riserve sono conservate all’estero? Esiste poi un registro? Le barre o lingotti sono contraddistinte con numeri seriali, dai quali si evince senza ombra di dubbio la proprietà italiana delle stesse?
Non dico un’interrogazione parlamentare, ma una domandina almeno al question time del mercoledì qualcuno vorrebbe farla al ministro competente? Prima di fare conti, come quelli di Vegas, senza avere più il metallo.