Nato sei anni dopo un altro mito del cinema, “l’attore degli attori” Marlon Brando; cinque anni più giovane del suo diretto “rivale”, il detentore degli altri proverbiali “blue eyes” del grande schermo Paul Newman; coetaneo del californiano “dagli occhi di ghiaccio” Clint Eastwood; di un anno più anziano del divo – meteora consacrata da tre sole pellicole a metà degli anni Cinquanta – James Dean. Eppure, mancando della genialità interpretativa del primo, della versatilità recitativa del secondo, della continuità (non solo cinematografica, davanti e dietro la macchina da presa) del terzo e della nevrotica intensità del quarto, non possiamo non ricordarlo – con ventotto pellicole all’attivo – come una delle icone del Novecento in celluloide.
Stiamo parlando di Steve McQueen, nato come Terence Steven McQueen a Beech Grove, un sobborgo di Indianapolis, ottant’anni fa, il 24 marzo 1930 e spentosi cinquant’anni più tardi, alle 3:50 del mattino di venerdì 7 novembre 1980 a Juarez, nell’amato Messico, per un arresto cardiaco in seguito all’intervento di asportazione – da parte di una equipe di chirurghi – di masse tumorali dall’addome e dalla clavicola, un male che gli era stato diagnosticato meno di un anno prima e forse dovuto all’amianto cui si era esposto durante le gare automobilistiche professionistiche.
Abbandonato dal padre (che fa il pilota in un circo) a sei mesi e affidato ad uno zio (la madre, poco più che maggiorenne, è dedita all’alcool), il giovane cresce in una fattoria del Midwest, in Missouri. Diciassettenne, si arruola nei marines nonostante soffra di problemi di dislessia e di udito all’orecchio sinistro. Dopo tre anni passati a guidare qualsiasi tipo di veicolo di terra (i motori, insieme alle donne, saranno uno dei suoi proverbiali, grandissimi amori) e raggiunto il grado di caporale, girovaga prima per il Texas, poi per il Canada ed infine si trasferisce a New York, passando di lavoro in lavoro (tassista, pugile, radiotecnico, autista di furgoni postali) e frequentando nel frattempo alcune scuole di recitazione tra le quali il prestigioso Actors’ Studio. È il 1955 quando, dei duemila candidati che si presentano ai provini della scuola diretta da Lee Strasberg, solo due di loro vengono accolti: uno è lui e l’altro è Martin Landau.
L’esordio sul grande schermo avviene nel piccolo ruolo di Fidel in Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me, 1956, Robert Wise), il film che lancia Paul Newman nel firmamento di Hollywood, mentre la sua prima parte da protagonista è in Fluido mortale (The Blob, 1958, Irwin S. Yeaworth jr.), un B movie di culto che – fondendo (come tante opere del periodo: siamo in piena Guerra fredda) fantascienza e horror – racconta della minaccia aliena costituita da una gigantesca gelatina carnivora color rosso fragola: McQueen viene citato nelle locandine (per la prima e ultima volta) con il nome di Steven.
La prima consacrazione arriva con I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960, John Sturges). Pur impegnato nel ruolo di Josh Randal nella serie televisiva Ricercato: vivo o morto (Wanted: Dead or Alive), utilizzando un “permesso per malattia” dopo avere distrutto un’auto, raggiunge i set messicani del film dove si ritrova tra Yul Brynner (già miglior attore protagonista per Il re ed io [The King and I, Walter Lang] agli Oscar 1956), Eli Wallach, Charles Bronson, Robert Vaughn, James Coburn, Brad Dexter (l’unico del gruppo che non riuscirà a sfondare) e Horst Buchholz (alla sua prima apparizione sul grande schermo).
Per il ruolo di Vin viene inizialmente preso in considerazione George Peppard ma è Yul Brynner – la cui popolarità gli ha permesso di avvicinare la produzione per proporre loro la rilettura in chiave western de I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954, Akira Kurosawa) – a richiedere McQueen per la parte. Decisione tra le meno accorte (almeno per lui) della sua carriera in quanto trascorre tutto il tempo delle riprese nel terrore – molto più che fondato: (ri)vedere per credere – che il giovane attore si diverta a rubargli la scena, con piccoli gesti improvvisati lì per lì, anche nelle inquadrature dove i due compaiono insieme.
Dopo due war movies tanto interessanti quanto poco convenzionali rispetto al gusto dell’epoca, vale a dire L’inferno è per gli eroi (Hell Is for Heroes, 1962, Don Siegel) e Amante di guerra (The War Lover, 1962, Philip Leacock), il sodalizio con John Sturges prosegue con La grande fuga (The Great Escape, 1963), altra hit degli anni Sessanta – ispirata a fatti realmente accaduti – in cui si ritrova ancora al fianco sia di Charles Bronson che di James Coburn e insieme a Richard Attenborough, James Garner e Donald Pleasence.
McQueen, che interpreta il ruolo del capitano americano Virgil Hilts (“The Cooler King”), chiede e ottiene di inserire nella sceneggiatura definitiva la celebre sequenza della fuga in motocicletta, assicurandosi la possibilità di essere lo stuntman di se stesso, oltre a comparire (reso ovviamente irriconoscibile dagli abiti e dal montaggio) sia nella parte del motociclista tedesco cui Hilts tende l’imboscata lungo la strada, sia in quella di uno dei soldati motorizzati che gli danno successivamente la caccia: anche qui (ri)vedere per credere. Solo per il famoso salto della staccionata con il filo spinato deve cedere il passo all’amico e sua controfigura personale Bud Ekins.
Se La grande fuga resta negli annali della storia del cinema (anche) per le sue spericolate acrobazie in moto, in Cincinnati Kid (The Cincinnati Kid, 1965, Norman Jewison) a farla da padrone è invece «la più famosa partita a poker del cinema americano», l’inevitabile sfida tra il giovane asso Eric Stoner (Steve McQueen) e il vecchio Lancey (Edward G. Robinson), mentre in Quelli della "San Pablo" [The Sand Pebbles, 1966, Robert Wise] interpreta la parte dell’ingegnere Jake Holman imbarcato sulla cannoniera USA “San Pablo” di pattuglia davanti alle coste della Cina sconvolta dalla rivoluzione. Il film, nonostante conquisti ben otto candidature agli Academy Awards di quell’anno (tra cui una per il miglior film e una per lo stesso McQueen, l’unica della sua carriera), non riesce a portare a casa neanche una statuetta. Eppure non pochi la considerano come la sua interpretazione più significativa in un ruolo drammatico.
Il film Bullitt (1968, Peter Yates), considerato uno dei capostipiti del cinema poliziesco metropolitano, lo vede protagonista nel ruolo del titolo – quello del tenente della squadra omicidi Frank Bullitt – e parte attiva in prima persona di una lunga e sensazionale sequenza di inseguimento automobilistico a bordo di una Ford Mustang, insuperata per bellezza visiva (la pellicola conquista il premio Oscar per il miglior montaggio, firmato Peter P. Keller) e “artigianalità” di realizzazione (tre settimane di riprese per dieci minuti di metraggio definitivo).
Emozionanti effetti non speciali ma autentici che le generazioni di appassionati più recenti – ormai immersi nell’era digitale – hanno forse potuto apprezzare in occasione delle tre lunghe sequenze inserite dal veterano John Frankenheimer in Ronin (1999). Restando in tema, ci piace anche ricordare che Bullitt avrà una coda di carattere pubblicitario sugli schermi televisivi nostrani nell’autunno 1997, grazie alla computer graphic che risuscita e rimette il divo hollywoodiano al volante ancora di una Ford (ma stavolta si tratta di una Puma) per rivivere con un pizzico di malinconia l’ebbrezza del celebre inseguimento.
Nello stesso anno McQueen torna a lavorare con Norman Jewison per Il caso Thomas Crown (The Thomas Crown Affair, 1968), un film giallo dove interpreta il ruolo del raffinato ed elegante (nonché annoiato) miliardario del titolo in cerca di nuovi stimoli, architettando la rapina perfetta per sfuggire alla monotonia della proprie giornate ma dovendo vedersela con la determinata detective privata Vicki Anderson (Faye Dunaway). Una pellicola rifatta nel 1999 per la regia di John McTiernan, con la partecipazione di Pierce Brosnan e Rene Russo, e distribuita in Italia con il titolo Gioco a due.
Dei primi anni Settanta è invece il sodalizio con Sam Peckinpah: prima con L’ultimo buscadero (Junior Bonner, 1972), un western moderno incentrato su di una famiglia di “rodeo riders”, ed in seguito con il sorprendente Getaway! (The Getaway, 1972), dove McQueen interpreta il ruolo dell’ex galeotto e rapinatore di banche Doc McCoy accanto alla futura moglie, la bellissima Ali McGraw: immergete la coppia nella sceneggiatura di Walter Hill (tratta dall’omonimo romanzo di Jim Thompson), nella fotografia di Lucien Ballard e nelle musiche di Quincy Jones ed ecco un road movie che il rifacimento del 1993 di Roger Donaldson con Alec Baldwin e Kim Basinger fa solo rimpiangere.
L’anno successivo per lui è ancora tempo di prigioni e di ostinati tentativi di fuga con Papillon (1973, Franklin J. Schaffner), tratto dal bestseller autobiografico di Henri Charrière del 1969 e sul set del quale rivive con Dustin Hoffman una rivalità della stessa natura di quella che già l’aveva opposto a Yul Brynner tredici anni prima. Ne L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, 1974, John Guillermin), dove interpreta il ruolo del capo dei pompieri Mike O’Halloran, deve vedersela con un cast di stelle di prima grandezza nel panorama hollywoodiano tra le quali Paul Newman: avendo scoperto che il “rivale” ha un minor numero di battute rispetto a lui ma considerandosi un attore di maggior talento, strappa alla produzione per entrambi lo stesso numero di righe nella sceneggiatura definitiva.
Gli “ultimi fuochi” della sua carriera sono rappresentati da Tom Horn (1980, William Wiard), un congedo dal grande schermo e dalla vita, e Il cacciatore di taglie (The Hunter, 1980, Buzz Kulik), pellicola decisamente meno riuscita della precedente. I suoi “blue eyes” si sono chiusi trent’anni fa ma per noi è ancora là, su verdi prati di confine, intrappolato nel filo spinato, ad accarezzare di sfuggita e ringraziare il serbatoio di una Thunderbird Triumph del 1962 per la sua, loro, nostra “grande fuga”.