Il consulto dei cattolici a Todi – lunedì, presente il presidente della Cei Bagnasco – sarà affollato di leader dell’economia: presidenti di associazioni imprenditoriali, capi del sindacato, banchieri. Da loro non ci si attende certo che parlino di “decreto sviluppo”, di patrimoniale, del caso Fiat-Marchionne, o della Popolare di Milano. Però, sarebbe un errore se la discussione economica si limitasse a un ripasso aggiornato della Dottrina sociale della Chiesa: benché l’ultima enciclica, in particolare, resti un documento strategicamente rilevante.
Il magistero di Benedetto XVI – lungi dal misurarsi con cautela con “res novae” come il mercato, la concorrenza, il merito, la globalizzazione – ha assunto la libera iniziativa personale tra i fondamenti dell’azione del cristiano cattolico, ponendo la produzione del reddito sullo stesso piano di valore della sua distribuzione: sia per contribuire a realizzare il “bene comune” (come ha esortato anche ieri il Papa), sia per portare presenze ed esperienze cristiane nel reale. In ogni caso, alla Caritas in veritate – se la lettura non appare troppo brusca e sintetica – un’Italia/Europa “povera” perché in stagnazione non va affatto a genio. Ma neppure alla Laborem exercens (la prima enciclica sociale di Giovanni Paolo II) sarebbe piaciuto difendere la dignità di un lavoro che – tra Europa e America – semplicemente non c’è più, soprattutto per i giovani.
E le banche – non solo in Italia – non sono d’altronde più “francescane” nel senso storico, non sociale o ecclesiale del termine: non assolvono più alla funzione creditizia di “sana” intermediazione delle eccedenze finanziarie delle famiglie verso le imprese, nello spazio e nel tempo. Non costituiscono più – come cardine del sistema finanziario – la leva strutturale della gestione del risparmio. Lo furono invece a lungo – anche sotto l’ala francescana – fin dal tardo Medioevo: allora la “malafinanza” si chiamava usura, ma non era diversa, alla radice, da quella che da quattro anni ha infettato l’economia.
Che dire, che fare? I convenuti a Todi avranno messo a frutto il loro tempo anche solo ponendo in termini corretti e puntuali alcune questioni di fondo: le “domande” dei cattolici in economia, il loro “desiderio”; non necessariamente le loro risposte, che saranno compito di chi governerà il Paese e l’Unione europea.
Un primo appunto, sul nostro modesto bloc-notes, è: come fare dell’Italia un popolo di imprenditori, di lavoratori autonomi, di “precari” non come i lavoratori dei call center, ma come lo è stato – per tutta la sua vita – Steve Jobs? E questo vale sia per chi ha vent’anni – e non può essere parcheggiato presso un sistema universitario pletorico – sia per chi ne ha cinquanta e non può più essere protetto da un contratto “variabile indipendente” a un costo che la concorrenza non consente più.
Il prossimo Decreto sviluppo – varato in sede d’emergenza – guarderà verosimilmente a commesse pubbliche nelle infrastrutture: è una classica ricetta keynesiana, e in quanto tale stagionata. Darà uno stipendio a tempo a degli stradini, ma il futuro non è nella manovalanza dei cantieri autostradali: il futuro sarebbe, ad esempio, sostenere iniziative in grado di intercettare – per decenni – i milioni di turisti cinesi, brasiliani, indonesiani, ecc. che cominceranno a transitare per l’Italia. Certo, è difficile. Chiama tutti a cambiare passo a tutto tondo: qualità delle conoscenze e delle relazioni, capacità innovative, produttività, rispetto delle regole scritte e non scritte del mercato (quello vero). È una sfida per tutti: per il fisco, ma anche per la scuola, per le banche, ma anche per le famiglie.
Un secondo appunto è collegato al primo. È evidente che disoccupazione giovanile, produttività del sistema-Paese e aggiustamento del welfare previdenziale sono questioni collegate. Un possibile “patto per l’Italia (Europa)” potrebbe essere declinato così: i lavoratori anziani ad alto reddito rinunciano a una parte dei loro compensi, prima retributivi, poi previdenziali, con un percorso concordato e pilotato, che non violi i diritti acquisiti ma li rimoduli. Beneficiarie della “riforma strutturale” – così invocata dal neo-presidente della Bce, Mario Draghi – sarebbero le categorie finora escluse anche solo dalla “corsa alla ripresa”. Anche per questo sarebbe necessaria molta politica, ma è solo in questa cornice che azioni straordinarie come anche un’imposizione patrimoniale – a lato di una più efficace lotta all’evasione fiscale – si ritroverebbero al centro di un progetto. Un progetto davvero “sussidiario”: il Paese aiuterebbe se stesso. In questa chiave potrebbe essere declinata la brutale “libertà di licenziare”, la “flessibilità del mercato del lavoro” evocate altrove e gettate sui tavoli delle grandi organizzazioni sindacali.
Un terzo “asterisco” concerne la crisi bancaria e la cosiddetta “crisi dell’euro”. L’Unione europea sta perseguendo Il risanamento economico-finanziario – sia sul versante privato che sul versante pubblico – in modo accidentato, ma alla fine univoco: con più rigore tendenziale nei bilanci statali (sotto un più stretto coordinamento da parte di istituzioni comunitarie); con più regole e capitali e meno esposizione sui mercati mobiliari globali per il sistema bancario. La seconda direttrice è più vicina alla cultura economica dei cattolici: vicina alla finanza come servizio reale a famiglie e imprese, lontana dalla “finanza per la finanza”, autonoma sia dall’economia reale, sia dai controlli sociali e istituzionali.
Chi qui scrive sarebbe sorpreso che da Todi giungessero segnali dissonanti. Il “pareggio di bilancio” – che l’Europa sta sollecitando all’Italia come standard costituzionale – non è invece assunto storico delle politiche economiche dei “cattolici democratici”. Dalle “case Fanfani” all’autostrada del Sole la leva della spesa pubblica in disavanzo è sempre stata nella “cassetta degli attrezzi” della vecchia Dc, anche della migliore: quella che tra l’altro strutturò le grandi imprese pubbliche del Paese. Anche il successivo pendolo delle privatizzazioni-liberalizzazioni sembra d’altronde aver esaurito la sua dinamica.
Quanto “pubblico”, quanto “quasi mercato”, quanta “economia sociale di mercato” serve all’Azienda-Italia?