Lo scorso venerdì ho dedicato il mio articolo a quanto sta accadendo a Gaza e alle ripercussioni finanziarie che questa nuova fiammata di tensione in Medio Oriente può sottendere o innescare. Come sapete, non credo alla vulgata dell’attacco israeliano per ritorsione ai missili lanciati da Hamas: troppo in grande stile l’offensiva, troppe le coincidenze temporali, prima delle quali il nuovo mandato presidenziale a Barack Obama e l’approssimarsi delle elezioni proprio in Israele. Inoltre, anche i media più chiaramente e nettamente schierati al fianco di Israele, nelle loro corrispondenze fanno notare come i missili di Hamas siano, purtroppo, un qualcosa di oramai cristallizzato nel quotidiano.
Detto questo, il sito AsiaNews faceva notare un’altra coincidenza che potrebbe dare una spiegazione al timing dell’attacco. A metà novembre, all’Onu si terrà infatti la discussione sul riconoscimento della Palestina, che passerà da osservatore a Stato non-membro osservatore. Scriveva il Washington Post l’8 novembre scorso: «L’ascesa della Palestina a Stato osservatore non-membro dell’Onu è praticamente un risultato scontato, data la schiacciante maggioranza di membri che nell’Assemblea generale voteranno a favore, mentre solo una manciata – capitanata da Usa e Israele – è contraria. La questione è quindi: quale sarà la reazione di Israele? Il Governo israeliano si sta riunendo per discutere di potenziali misure punitive come ritorsione al miglioramento dello status, un riconoscimento internazionale di fondamentale importanza per i palestinesi. Rimane un’incognita quale potrebbe essere esattamente la mossa degli israeliani, ma con un Israele che non negozia con i palestinesi e che aumenta gli insediamenti dei coloni, rimane molto limitato il numero di opzioni che di fatto si possono concepire non come una punizione e che non facciano già parte di un’abitudine consolidata».
Appare infatti ovvio che il potenziamento dello status della Palestina darebbe più forza alle richieste di riconoscimento dello Stato stesso, composto dalla Sponda Ovest, dalla Striscia di Gaza e da Gerusalemme Est, cioè quei territori conquistati da Israele con la guerra dei 6 giorni nel 1967. Decisamente interessante come lettura.
Ne aggiungo un’altra di ipotesi, sempre legata all’integrità territoriale ma anche alla politica energetica. In perfetta contemporanea con l’offensiva su Gaza, infatti, l’Iran ha reso noto di aver dato inizio alla costruzione di una pipeline per il gas verso la Siria, altro focolaio di tensione nell’area. E proprio il gas potrebbe essere la ragione geostrategica e geofinanziaria di quanto sta accadendo.
Già, perché nel 2000 sono state scoperte enormi riserve di gas proprio sulla costa di Gaza, dopo che l’anno precedente la British Gas (60%) e l’ateniese ma di proprietà libanese Consolidated Contractors International Company (30%) siglarono con l’Autorità palestinese (10% attraverso il suo fondo di investimento) un accordo che garantiva loro i diritti di esplorazione per gas e petrolio nell’area per 25 anni. Inoltre, l’accordo prevedeva anche lo sviluppo di infrastrutture, tra cui la costruzione di un pipeline per il gas. Peccato che la licenza di esplorazione di cui godeva la British Gas coprisse l’intera area marina offshore di Gaza, contigua a molte infrastrutture offshore israeliane sempre per il gas, tanto che il 60% di tutte le riserve di gas lungo la costa Gaza-Israele sono di proprietà palestinese. Dopo la trivellazione di due pozzi nel 2000, denominati Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2, la British Gas rese noto che le riserve stimate sarebbero di 1,4 triliardi di piedi cubici, un controvalore pari a circa 4 miliardi di dollari, ma l’estensione delle riserve palestinesi potrebbe essere maggiore.
Ora, a chi appartengono quelle riserve? Da un punto di vista legale ai palestinesi, ma la morte di Arafat, la vittoria di Hamas e la fine ingloriosa dell’Autorità palestinese hanno di fatto permesso a Israele di prenderne il controllo, tanto che la British Gas ha intavolato negoziati con il governo israeliano, bypassando completamente il governo di Hamas sulla questione. Addirittura, nel 2006 l’allora premier britannico Tony Blair in persona intervenne per bloccare il progetto di British Gas di pompare gas palestinese verso l’Egitto, su diretta richiesta di Israele (guarda caso, il governo del Cairo è stato il più duro verso Israele in questi giorni, tramutandosi poi in mediatore per raggiungere la tregua iniziata ieri).
Da allora il governo israeliano ha più volte cercato un accordo con British Gas, sfruttando il caos ingenerato dalla vittoria elettorale di Hamas, arrivando a un vero e proprio pressing a partire dal giugno 2008, quando cominciò la programmazione dell’invasione di Gaza sostanziatasi con l’attacco nel mese di dicembre. Nulla da fare, fino a quando nel marzo di quest’anno la British Gas ha annunciato un piano per vendere una parte delle concessioni per l’esplorazione al largo di Gaza, tra cui il già citato pozzo Gaza Marine-1 per una cifra tra i 70 e gli 80 milioni di dollari. Dopo tredici anni di tira e molla, insomma, British Gas chiudeva l’avventura.
Lo scorso 24 settembre, poi, fonti israeliane rendevano pubblico il fatto che Israele e l’Autorità palestinese avevano tenuto dei colloqui proprio riguardo lo sviluppo di un nuovo pozzo al largo di Gaza, i cui proventi sarebbero serviti a contribuire alla sostenibilità fiscale palestinese, al livello peggiore dal 1994. Un alto dirigente del ministero della Difesa dichiarò alla stampa: «Abbiamo trovato un accordo sui principi e ora, come Israele, siamo pronti a muoverci spediti verso il processo operativo». Silenzio totale sui dettagli, se non un particolare: dell’accordo farebbe parte la decisione di Israele di rilasciare 5mila nuovi permessi di lavoro sul suo territorio all’Autorità palestinese per cittadini di Gaza disoccupati, portando il numero totale a 46.450.
Non sarà che Hamas non vuole questo tipo di collaborazione tra Israele e Autorità palestinese e abbia quindi aumentato la portata degli attacchi, facendo di fatto il gioco di Tel Aviv, pronta a entrare in gioco e con l’opzione dell’attacco di terra che potrebbe garantire il controllo, anche fisico, di quelle aree così strategiche? Israele, d’altronde, si fa forte del diritto esclusivo di fornitura energetica nella Striscia di Gaza, in perenne stato di emergenza e blackout, nonostante il gas scoperto al largo di Gaza garantirebbe indipendenza ai palestinesi per 15 anni.
Cui prodest questo continuo braccio di ferro? A Israele? O forse ad Hamas, oramai legata mani e piedi al regime iraniano che la foraggia? Una cosa è certa: non ai cittadini della Striscia o di Israele.
P.S.: Non guardate troppo alla Grecia, fate attenzione all’Argentina. Già, perché il Paese sudamericano il prossimo dicembre potrebbe fare default un’altra volta. La Corte distrettuale di New York ha infatti dato ragione a due hedge funds che si rifiutarono di aderire alla ristrutturazione dei debiti del Paese nel 2001 e quindi Buenos Aires dovrà pagare loro 1,3 miliardi di dollari entro il 15 dicembre. Il problema è che proprio il mese prossimo l’Argentina dovrà pagare 3,4 miliardi in totale a vari detentori dei bonds ristrutturati su regolari scadenze: il primo appuntamento – di piccola entità – è previsto già per il 2 dicembre. Se però entro il 15 non verranno pagati i due hedge funds, si bloccheranno automaticamente tutti gli altri pagamenti regolari ai detentori e sarà molto probabilmente un nuovo default sovrano. Non a caso, sul mercato nelle ultime settimane i grandi players hanno fatto scorpacciate di credit default swaps argentini.
La storia si ripete, attenzione che quei piccoli “fondi locusta” che hanno comprato bonds greci denominati in diritto britannico e che non hanno aderito allo swap di marzo non possano presto fare altrettanto. Scatenando l’inferno nell’intera eurozona, visto che sarà default disordinato. Che a qualcuno questa arma di distruzione di massa possa far comodo? La troppa tranquillità sui mercati e la volatilità ai minimi di questi giorni a me fanno una paura terrificante, ve lo assicuro.