Ieri sera a mercati chiusi Standard & Poor’s ha comunicato di aver abbassato il rating sul debito sovrano italiano da “BBB+” a “BBB” con outlook negativo. Il comunicato stampa con cui l’agenzia di rating ha annunciato la propria decisione ai mercati è un analisi spietata, lucida e senza possibili appelli della situazione e delle prospettive economiche italiane. Si apriranno analisi e contro-analisi sulla giustezza e sull’opportunità della decisione di S&P’s, visti anche gli spiacevoli trascorsi e alcune evidenti asimmetrie di giudizio che si sono verificate, ma la descrizione dell’economia italiana contiene molte, amare, verità.
“Il giudizio riflette la nostra visione di un ulteriore peggioramento delle prospettive economiche italiane alla fine di un decennio in cui la crescita reale è stata in media dello -0,04%. La produzione italiana nel primo trimestre del 2013 è stata inferiore dell’8% a quella dell’ultimo trimestre del 2007. Abbiamo abbassato la stima di crescita del Pil per il 2013 dal -1,4% al -1,9%”. “Tra il 1999 e il 2012 la quota dell’Italia del mercato mondiale dei beni e dei servizi si è ridotta di un terzo”.
A questo inizio “incoraggiante” segue l’analisi sulle cause di questo disastro economico, industriale e finanziario. La bassa crescita, secondo l’agenzia di rating, deriva in larga parte dalla rigidità dei mercati del lavoro e della produzione; la conseguenza è che i costi nominali del lavoro (i salari che vengono percepiti in media dagli italiani) sono saliti più che in ogni altro Paese dell’Unione europea. In pratica, la competitività e la produttività del sistema italiano non giustificano più gli attuali salari che non sono sostenibili. Un altro fattore della crisi e del cambiamento di rating è una politica di trasmissione monetaria compromessa. I tassi di interesse reali alle società non finanziarie, le imprese, sono molto superiori ai livelli pre-crisi.
Con tassi di crescita nominali prossimi allo zero, il rapporto debito su Pil non comincerà a diminuire, a meno che il surplus primario non tocchi il 5% del Pil, mentre i target di deficit per l’anno in corso sono già a rischio a causa delle diversità di idee nell’attuale governo. La ragione, secondo S&P’s, è la sospensione dell’Imu e dell’incremento dell’Iva. La spesa corrente è sproporzionata rispetto a quella per investimenti; le tasse su lavoro e capitale sono più alte di quelle sui consumi e sugli immobili.
Una piccola lancia viene spezzata per il pagamento dei debiti dell’amministrazione pubblica che potrebbero dare uno stimolo alla crescita, anche se aumenterebbero il debito. L’unica nota positiva viene dalle esportazioni, mentre i costi domestici sono alti inclusi i costi energetici e quelli amministrativi. Dietro il gergo economico si intravede chiaramente l’esperienza di tante imprese che pagano decenni di scelte energetiche suicide (si pagheranno i pannelli solari mentre i rigassificatori non partono dopo decenni di opposizione ambientali, burocratiche e giudiziarie di ogni ordine e grado), mentre le imprese soffocano per adempiere alle richieste di una burocrazia senza alcun buon senso. L’altra esperienza conosciuta è quella di un mercato del lavoro rigido che garantisce le rendite, “inclusi i lavoratori con contratti a tempo indeterminato”, spesso, aggiungiamo noi, ormai fuori da qualsiasi ragionevolezza.
L’agenzia di rating conclude con la “minaccia” di un ulteriore abbassamento del rating se il governo non implementerà politiche che impediscano agli indicatori fiscali di peggiorare e se ritarderà le misure per risolvere le rigidità nel mercato del lavoro, dei servizi e della produzione. Viceversa l’outlook verrà riportato a stabile se verranno introdotte riforme strutturali o se altre misure, incluse le privatizzazioni, verranno adottate per abbassare il debito pubblico.
Nei mercati in cui la liquidità scorre ancora abbondante, in cui la Bce e il suo governatore continuano a rilasciare dichiarazioni sull’irreversibilità dell’euro, le reazioni negative potrebbero essere anche contenute o effimere. Quello che importa è se S&P’s abbia o meno ragione nell’analisi sulla situazione economica italiana. L’evidenza innegabile è quella di una crisi drammatica che sta serissimamente compromettendo il sistema industriale italiano. L’altra evidenza è quella dell’assenza di riforme (anzi, le ultime sul lavoro sono state un suicidio), di un settore pubblico totalmente immune a qualsiasi cambiamento, quando i lavoratori delle imprese vengono lasciati a casa a migliaia, delle ribellioni dei sindacati per gli operai che decidono di lavorare mezz’ora in più per salvare l’azienda, mentre procedimenti giudiziari appena iniziati compromettono apparati produttivi che danno lavoro a migliaia di famiglie. Tutto questo dopo sei anni di crisi in cui, tanto per fare un esempio, non si è riusciti nemmeno a eliminare una singola provincia, nemmeno la più piccola e inutile.
L’uscita dall’euro rimane un tabù di cui parlare nei sottoscala e, ovviamente, sbattere i pugni sul tavolo in Europa non “sta bene”, così le tasse rimangono dove sono e le imprese senza credito, sempre ammesso che non si tratti solo di “evasori”. Se serve un downgrade per esplicitare la gravità della situazione, allora viva S&P’s.
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