Nell’intervista a Il Corriere della Sera di domenica, il ministro Giuliano Poletti ha tentato, ad avviso di chi scrive, un’impossibile quadratura del cerchio: ha difeso (giustamente) la sua riforma del contratto a termine; ha ribadito l’interesse del governo per il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma, nel medesimo tempo, ha confermato una posizione negativa per quanto riguarda una sostanziale modifica dell’attuale disciplina del licenziamento individuale (per com’è ora regolata dopo la legge n. 92/2012).
Bene. Sulla vicenda abbiamo già avuto modo di esprimere in questa rubrica la nostra opinione che possiamo così riassumere: dopo la riforma del contratto a termine, con l’abolizione della causale per tutta la sua durata e con la possibilità di ben 5 proroghe, il problema di quel maledetto articolo che sta tra il numero 17 e il numero 19 della legge 300/1970 si è fortemente ridimensionato, perché il decreto n. 34/2014 ha aperto, a favore delle imprese, un’uscita di sicurezza per almeno un triennio (sempre che la Corte di Giustizia non accolga il ricorso della Cgil).
Pertanto, il governo e la maggioranza possono confezionare il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti nel modo che ritengono “politicamente corretto”: o introducendo, nei fatti, un periodo sostanzialmente di prova tanto lungo da essere ridicolo oppure modulando le sanzioni contro il licenziamento illegittimo, dapprima e per un certo numero di anni attraverso una penale economica, poi con la reintegra giudiziaria; nessun imprenditore, però, preferirà avvalersene al posto del nuovo contratto a termine, per il semplice fatto che, grazie a quest’ultimo istituto, si evita il rischio di finire in giudizio, come invece potrebbe sempre avvenire anche con il contratto a tempo indeterminato di nuovo conio; almeno dopo trascorso il primo step.
E non si venga a dire – come ha fatto il ministro – che l’utilizzo del nuovo contratto potrà essere incoraggiato con incentivi e sconti. È ora di smetterla con la prassi di “drogare” l’occupazione, in pratica “pagando” i datori di lavoro perché assumano a tempo indeterminato. Anche perché sarebbe inutile. Come sosteneva Marco Biagi, infatti, nessun disincentivo normativo può essere compensato da un incentivo economico. Basta mettere a confronto l’esperienza compiuta con il “pacchetto Giovannini” che premiava, con un bonus da 600 euro mensili fino a 18 mesi, le assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato. Intendiamoci bene: 600 euro rappresentano più o meno la metà della retribuzione che l’azienda eroga al lordo al dipendente neoassunto.
Tuttavia, appena è entrato in vigore il contratto a termine “made in Poletti” le aziende hanno cessato di utilizzare l’opportunità dell’incentivo di Giovannini per rivolgersi al nuovo istituto (benché più oneroso dell’1,4%). Ma sforziamoci, con l’ottimismo della volontà, di andare avanti di qualche mese e di immaginare che il Jobs Act n. 2 sia già stato approvato e che sia stato predisposto anche il decreto legislativo attuativo secondo i canoni politicamente sostenibili da parte della sinistra. Il datore di lavoro, al momento di procedere a un’assunzione, avrà a disposizione una serie di strumenti contrattuali.
Scarterà subito i cosiddetti contratti atipici che la riforma Fornero ha caricato di requisiti di legittimità che li rendono impraticabili. Avrà davanti a sé una prateria messa a sua disposizione dal nuovo contratto a termine di cui potrà disporre per 36 mesi avvalendosi, all’interno di questo limite, di ben 5 proroghe, senza problemi a ogni scadenza. Poi gli sventoleranno davanti agli occhi alla stregua di un drappo rosso il nuovo contratto a tempo indeterminato, libero da vincoli per un certo lasso di tempo. Ma sembra plausibile che soltanto per una questione di principio – poter parlare di contratto a tempo indeterminato e non di contratto a termine – nel primo periodo viga il licenziamento ad nutum? È consentito penalizzare così duramente i lavoratori per una banale questione di nomen juris? Evidentemente no. Ne deriverà che la risoluzione del rapporto di lavoro – come si dice in giro – sarà accompagnata dalla corresponsione di un’indennità ragguagliata alla durata del rapporto stesso.
Ecco quindi che viene in evidenza un primo handicap rispetto al contratto a termine. Poi, detto tra di noi, in questo modo non si andrebbe a pascolare nel terreno riservato all’apprendistato? Il datore avrebbe comunque interesse, se deve assumere un giovane, a utilizzare quest’ultimo istituto anziché il sarchiapone del nuovo contratto a tempo indeterminato, se non altro perché gli costerebbe meno di contributi. Inoltrandosi, poi, lungo il percorso del nuovo contratto il datore correrebbe il rischio di essere chiamato in giudizio, al momento della risoluzione, tanto in regime di tutela obbligatoria (con la penale quale sanzione del licenziamento illegittimo), quanto reale (con la reintegra giudiziaria).
Tutto ciò premesso, il Pd vuole conservare l’articolo 18 così com’è oggi? Si accomodi. Anzi lo faccia imbalsamare a futura memoria delle giovani generazioni. Quanto al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che dire? Facciamone una stampa limitata con sottoscrizione autografa di Pietro Ichino, come si fa con le litografie d’autore.