Nelle ultime settimane – non sembri un paradosso sofistico – la governance della Banca Popolare di Milano è stata messa sotto pressione dalla Vigilanza della Banca d’Italia per ragioni non così diverse da quelle che hanno stretto d’assedio Via Nazionale per la designazione del nuovo governatore. L’establishment interno a Banca d’Italia pretendeva di far salire per scelta propria il Direttore generale Fabrizio Saccomanni al ruolo di Mario Draghi. Una parte del governo e delle forze politiche hanno eccepito lo stesso eccesso di autoreferenzialità che la Vigilanza stava nuovamente e duramente contestando alla Bpm.
Nel caso della Banca d’Italia, la contesa politico-culturale che ha fatto da involucro al gioco di potere ha richiamato in causa i rapporti tra “politica” e “tecnocrazia”. Ha riacceso la discussione sui limiti dell’autonomia e sui doveri di “accountability” istituzionale di una grande authority verso gli interessi generali del sistema economico nazionale, il cui punto di sintesi democratica rimane l’azione dell’esecutivo e il confronto parlamentare. Tema tanto più delicato quanto più incisivo è diventato l’operato della Bce, alla cui guida è stato chiamato proprio il governatore italiano uscente. Tema tanto più delicato in quanto – a quattro anni dal deflagrare della crisi globale – il ruolo dei banchieri centrali è ormai nel mirino dell’opinione pubblica non meno di quanto lo sia da tempo quello dei banchieri di Wall Street o di quelli dei colossi europei del credito.
La vicenda si è risolta con un compromesso: Saccomanni è stato bocciato (al pari del primo “candidato della politica”: il Direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli) e il premier ha raccolto il consenso degli altri tre soggetti coinvolti (il Quirinale, il ministero dell’Economia e il Consiglio superiore della Banca d’Italia) sul vicedirettore generale anziano Ignazio Visco. In termini sostanziali è stata salvaguardata l’autonomia e la tradizione della Banca d’Italia, ma è stato affermato in modo abbastanza netto che Palazzo Koch non è un corpo separato dello Stato. E Visco – chiaramente designato dal governo e non da Draghi – rappresenterà “l’Italia” nel Consiglio generale della Bce, presieduta da Draghi stesso. Non sarà un semplice tramite tecnocratico tra una Bankitalia e una Bce entrambe a rischio di deriva verso “autocontrollo”.
In Bpm la questione era “di mercato”, più circoscritta, ma non meno complessa. Non c’è dubbio (questa nota lo ha ricordato più volte) che la storia della Popolare milanese sia stata periodicamente segnata da problematicità legate all’autocontrollo dei dipendenti-soci, organizzati su base sindacale. E la Vigilanza Bankitalia deve “vigilare” per legge sulla “sana e prudente gestione” di aziende bancarie italiane “troppo importanti per andare in crisi”: e anche ultimamente la Bpm non è stata un istituto-modello. Vicenda esemplare è stata il collocamento – agli sportelli – di obbligazioni “convertende” che avrebbero dovuto rafforzare il patrimonio della banca. L’operazione si è invece tradotta in forti perdite per i clienti e in un danno non trascurabile per la reputazione della banca, che ha d’altronde dovuto far ricorso – anche se in misura limitata – al supporto pubblico dei Tremonti-bond.
Il bilancio Bpm – inequivocabilmente – non è al meglio della forma: forse meno ancora di altri competitori italiani. Le ennesime rivelazioni sulle politiche del personale (promozioni estese e forse pilotate, premi ai leader sindacali interni, ecc.) hanno solo aggrovigliato i nodi sostanziali che la Vigilanza ha affrontato in modo particolarmente deciso imponendo tre auto-riforme: il passaggio alla governance “duale” (per staccare la “proprietà” concentrata nei dipendenti-soci, dalla gestione della banca); un aumento di capitale immediato; un concreto ricambio nelle stanze dei bottoni di Piazza Meda. Tutte e tre queste richieste sono state soddisfatte dall’assemblea di sabato: anche la Bpm e i suoi dipendenti-soci – come la Banca d’Italia e i suoi dipendenti-samurai – hanno dovuto fare i conti con la realtà. Anche la Popolare di Milano è però riuscita a difendere ciò che era difendibile sul piano della democrazia societaria. La Banca d’Italia (nel silenzio della Consob) non ha spinto il suo pressing a conseguenze estreme: il commissariamento della Bpm o la sterilizzazione del voto dei dipendenti-soci con provvedimento amministrativo alla vigilia dell’assemblea avrebbe fatto davvero il pari con la nomina di un “politico” al vertice della Banca d’Italia.
L’abbandono forzato da parte del presidente Massimo Ponzellini (vicino al ministro dell’Economia Giulio Tremonti) non si è – per ora – tradotto in un esproprio della Bpm da parte della Banca d’Italia di Draghi. La stessa nomina di Visco – quarantott’ore prima dell’assemblea di Milano – ha certamente suggerito alla Vigilanza di prendere tempo. Sul tavolo del nuovo consiglio (presieduto dal bocconiano Filippo Annunziata) c’è tuttavia già una nuova lettera “persuasiva”: Via Nazionale solleciterebbe una “discontinuità” che anzitutto colpirebbe il direttore generale Enzo Chiesa.
Bankitalia, d’altra parte, avrebbe visto tacitamente con favore l’ingresso di Mario Arpe come nuovo azionista-manager, con la garanzia presidenziale di Marcello Messori (economista ciampiano, ex leader dell’Assogestioni). Tentativo non riuscito: troppo problematico il nome di Arpe (l’uomo dell’Opa Telecom poi defenestrato da Mediobanca), troppo parenti di “hedge fund” corsari i soldi che prometteva di portare. Le tentazioni dirigiste di Bankitalia, evidentemente, non sono state solo il peccato mortale di Antonio Fazio: in Via Nazionale c’erano prima e ci sono anche adesso.
Curioso che la stessa “governance” cooperativa che Fazio voleva proteggere alla Popolare di Lodi e in AntonVeneta (e che gli fu fatale) abbia oggi resistito al pressing della Banca d’Italia di Draghi. Altra singolare coincidenza: nel 2005 Fazio aveva ormai contro l’establishment raccolto attorno a Mediobanca (che il banchiere centrale voleva “annettere”); ma anche su Bpm nel 2011, Mediobanca ha silenziosamente contrastato il tentativo-Arpe. E ora sarà Piazzetta Cuccia a pilotare l’aumento di capitale “cooperativo”, in appoggio all’investimento di Andrea Bonomi, erede di una famiglia del capitalismo milanese.
Certo, il modello cooperativo delle grandi Popolari resta sulla linea del fuoco. E anche per i 5mila dipendenti-soci della Bpm e i loro “Amici” (sulla carta più di 7mila in tutto) nulla sarà più come prima. La difesa del fortino di Piazza Meda ha dovuto attraversare una drammatica rottura della rete di relazioni sindacali che ha finora intessuto la governance. Da un lato le centrali sindacati nazionali (soprattutto la Fiba-Cisl e la Fabi) hanno sconfessato le loro rappresentanze interne. Anche su questa pressione, il tradizionale pluralismo interno delle sigle confederali e autonome è andato in pezzi. Per la cronaca la Uilca è oggi – in Bpm – l’apparente interfaccia unica degli “Amici Bpm”, per quanto essi stessi lacerati e smagriti.
È evidente che l’esito dell’assemblea Bpm è un punto di partenza, non un punto di arrivo. Vista l’Italia corrente, è già molto che – com’è accaduto per Bankitalia – l’ultima settimana non si sia conclusa con esiti distruttivi. È un bene che né Bankitalia che Bpm siano state “commissariate” e che abbiano potuto mantenere vivi i loro “modelli”. Che però devono evolvere, perché entrambi sono “troppo importanti per fallire”.