Il cuore batte Facebook

Alcune opere di Rubens sono finite censurate da Facebook. Un suo algoritmo aveva già colpito alcune opere d’arte molto note in passato. MAURIZIO VITALI

C’era una volta il Braghettone, adesso c’è l’Algoritmo di Facebook. All’indomani del Concilio di Trento, il pittore Daniele Ricciarelli da Volterra applicò a pennello braghe censorie ai personaggi del Giudizio Universale della Cappella Sistina, così da coprire le pudenda dipinte dal suo maestro e mentore Buonarroti. Lui ci guadagnò un tot di baiocchi pontifici e un indimenticabile nickname. Anche il sublime affresco michelangiolesco a ben vedere ci guadagnò, o almeno limitò i danni: senza mutandoni sarebbe stato completamente eliminato.

Purtroppo l’Algoritmo censorio di Facebook non mette i braghettoni: se è nudo è porno – ragiona senza tante sottigliezze – e va eliminato. Il social di Zuckerberg è anti-porno, e non guarda in faccia a nessuno: si chiami Rocco Siffredi o Pieter Paul Rubens, non fa differenza. La logica dell’Algoritmo (anche di quello anti-porno) è matematica, spietata e fulminea.

Il nome del grande pittore fiammingo, nato undici anni dopo la morte del Braghettone, non è stato fatto a caso. Sono sue le opere censurate, qualche giorno fa, da Facebook-Antiporno, perché contenenti dei nudi, e ora Anversa e tutto il Belgio sono sul piede di guerra contro Mark Elliot Zuckerberg, come se non fosse già pesto per lo sputtanamento della cessione di milioni e milioni di dati sensibili degli utenti e per la perdita di 114 miliardi di dollari (due volte il valore dell’Eni!) in Borsa.

Il fatto è che la toppata porno-artistica su Rubens non è la prima. Negli ultimi due anni sono finiti sotto i forbicioni del Torquemada digitale il Caravaggio, Courbet, Delacroix, Rodin, Cagnacci, Holbein, Giambologna e un anonimo del 27.500 a.C. scultore di una piccola ma necessariamente non anoressica Madre Terra.

Si direbbe: anche gli algoritmi possono sbagliare. Non è esattamente così. Come ha sottolineato il prof. Carlo Vercellis, responsabile scientifico dell’Osservatorio Big data analytics&Business intelligence del Politecnico di Milano, non si può «accusare un calcolo matematico… Gli algoritmi sono un prodotto di chi li fa, disegnandoli a seconda dei suoi obiettivi. Se registriamo delle anomalie, nulla ci impedisce di intervenire». Il professore si esprimeva così in un’intervista al Sole24Ore (ad Alberto Magnani, 30 novembre 2017). Il contesto di riferimento era l’uso improprio di algoritmi nel monitoraggio degli orari e del rendimento del lavoro contestato a Ikea e Amazon dai dipendenti. Un contesto assai differente dal caso delle opere d’arte censurate come porno.

Resta valido, e prezioso, il richiamo di Vercellis alla responsabilità di chi costruisce l’algoritmo in base a determinati scopi, cosa che chiama in causa la soggettività umana, con ciò escludendo che l’algoritmo sia oggettivo perché matematico.

Un’altra considerazione sembrerebbe giusto aggiungere: non tutto il reale è riconducibile alla misurabilità matematica. Non lo sono di certo le esperienze più tipicamente umane, come l’amore, la fedeltà, l’onestà, la creatività. Non lo è l’arte: i centimetri quadrati o i pixel di nudo non potranno mai misurare la differenza tra porno e arte. Non lo è la libertà. Non lo è il bello, come non lo sono il buono e il vero. Essi non sono valori quantificabili, ma esigenze e criteri di giudizio inscritti nel profondo dell’essere uomo che segnalano un rapporto misterioso con l’infinito. Si può chiamare cuore, questo livello profondo dell’umano, o ragione nella pienezza della sua apertura. Questo cuore (o ragione, se preferiamo), a differenza dell’algoritmo, non confonderà mai la bellezza con un pornazzo. Il cuore è ferito dal desiderio della bellezza. L’algoritmo neanche un po’. È per questo che equivoca.

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