L’impresa era titanica: fare per il capitano Kirk quello che la Fox ha fatto per James Bond. Ossia, come ridare vita a una serie che ha portato nelle casse di Hollywood una valanga di dollari, ma molto tempo fa? Gli Studios probabilmente hanno pensato di far leva sull’effetto nostalgia per i più grandi, mentre ai più piccoli poteva bastare la promessa dell’ennesimo blockbuster zeppo di rumori ed effetti speciali (senza contare tutto il merchandising già pronto nelle scatole). Ma gli appassionati (i “trekkies”) possono stare tranquilli: non solo la sceneggiatura è assolutamente fedele, dagli stilemi dei primi episodi della serie televisiva fino al lungometraggio per il grande schermo del 1979, ma il film procura emozioni e trovate decisamente all’altezza.
J.J. Abrahams coi suoi fidati collaboratori Roberto Orci e Alex Kurtzman (una squadra cui si devono quasi tutte le cose migliori del cinema d’azione e della tv, da Alias a Lost fino a Mission: Impossible III) sono riusciti a smontare la macchina impolverata e po’ arrugginita di Star Trek, l’hanno grattata, ripulita, ingrassata, lucidata e fatta ripartire a pieni giri. E l’hanno fatto disseminandola di tanti richiami e citazioni, da farla apparire non più come un prequel, ma quasi un brillante remake, che non si fa mancare nessuno di quei piccoli e numerosi particolari che hanno trasformato una (tutto sommato) modesta serie di fantascienza televisiva in un vero e proprio modello di confronto, cui nessun concorrente è mai potuto sfuggire.
La storia è abbastanza complicata, ma non molto di più di un qualsiasi episodio televisivo: il cattivissimo Nero (Nero è il suo nome, non il suo colore) con la faccia tatuata come un Maori (o come Mike Tyson, fate voi) spunta dal futuro con una nave spaziale, enorme e spaventosa e con un preciso scopo, distruggere Vulcano e la Terra, per vendicarsi del mancato salvataggio del pianeta Romulo da parte del dottor Spock. Non preoccupatevi se a questo punto già non state capendo niente, non importa: Nero serve solo per far vedere che c’è un cattivo con una specie di antimateria in grado di far implodere i pianeti ma capace di aggregare contro di lui una squadra che scopriamo essere composta dai nostri giovani, ma già baldi, eroi.
Così, sul ponte dell’Enterprise, appena uscita dai cantieri spaziali nella stratosfera sopra San Francisco, troviamo Kirk (Chris Pine), Spock (Zachary Quinto), McCoy (Karl Urban), Scotty (Simon Pegg), Uhura (Zoe Saldana), Sulu (John Cho), e Chekov (Anton Yelchin), tutti in attesa della velocità di curvatura 10, pronti ad alzare gli scudi, armare i faser, trasferire potenza e quant’altro il dizionario trekkiano metta a disposizione. In realtà sono tutti cadetti: Kirk è un attaccabrighe che corre dietro a tutte le ragazze (meglio se dalla pelle verde), McCoy è un semplice medico di provincia che odia i viaggi spaziali, Sulu tiene il volante della nave ed è bravo con la spada, Chekov è un genio diciassettenne con un ridicolo accento slavo, Scotty come al solito fa i miracoli coi motori e Uhura scansiona le frequenze a più non posso in cerca di comunicazioni con la flotta stellare.
Ma il centro della vicenda è e rimane Spock, interpretato da Zachary Quinto come un giovane tormentato, in perenne conflitto, allevato dal padre vulcaniano (Ben Cross) e da una madre terrestre (un’irriconoscibile Winona Ryder); ma al tempo stesso il ruolo è ricoperto anche dal mitico Leonard Nimoy, il primo ufficiale cui capitò anche di morire e di viaggiare nel tempo per dispensare le perle di saggezza ai suoi amici e provare con loro quel briciolo di emozione che la sua stirpe gli impedirebbe. Le scene con Nimoy (anche se doppiate in italiano con un biascichio da dentiera che balla) sono certamente tra le più belle ed emozionanti, e non penso solo per i vecchi appassionati. Quando il canuto Spock parla col giovane Jim Kirk e gli dice “Io sono sempre stato e sarò sempre tuo amico” o quando, alzando la mano con le dita divaricate a V saluta dicendo “Lunga vita e prosperità”, anche nel buio della sala ho riconosciuto lunghi sospiri di commozione.
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