Le “guerre per banche” – fra finanza e politica – sono una costante della storia italiana. Lo scandalo della Banca Romana di fine ‘800 è da decenni sui manuali scolastici. Un po’ meno – ma non del tutto sottratta all’elaborazione della memoria collettiva – è la crisi bancaria degli anni ’30, un passaggio che pure ha disegnato l’Italia del credito fino al 1990, anzi fino al 2000: quando morì il patron di Mediobanca, Enrico Cuccia, che di quel regime bancario era figlio e fu poi a lungo dominus, in parziale continuità fra autoritarismo fascista e democrazia repubblicana.
Cuccia stesso, del resto, fu protagonista della più lunga e sanguinosa “guerra bancaria” nell’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Lo scontro – squisitamente siciliano – si sviluppò con Michele Sindona, sulla frontiera storica fra finanza laica e finanza cattolica. Non c’era posto per tutt’e due i finanzieri nell’Italia degli anni ’60 e ’70. Fu un terzo siciliano a far pendere la bilancia dalla parte di Mediobanca: Ugo La Malfa, strettamente legato al club laico di via Filodrammatici. Da ministro del Tesoro, forzò i suoi poteri di presidente del Cicr e impedì l’autorizzazione a un’operazione di ricapitalizzazione che era decisiva per la sopravvivenza di Sindona. Per quest’ultimo fu l’inizio di un declino tragico, sfociato in una morte “siciliana” – con un caffè avvelenato nel carcere di Pavia – durante il processo per il crac Ambrosiano. Lo stesso presidente dell’Ambrosiano, Roberto Calvi, era già morto assassinato in quella grande “guerra per banche”.
Prima di lui era stato ucciso Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata di Sindona. E al di là di questo episodio, la vittoria dei laici di Mediobanca fu tutt’altro che gratuita. Il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, fu arrestato, ingiustamente: si disse per una rappresaglia giudiziaria appoggiata da Giulio Andreotti, grande sponsor di Sindona. Sarcinelli era il candidato a succedere al governatore Paolo Baffi, che invece fu costretto lui stesso ad abbandonare in anticipo via Nazionale. Dovette far fronte – forse con minori capacità politiche – a una “guerra per banche” che in parte era stata risparmiata la predecessore Guido Carli: certamente un amico leale di Cuccia, ma dotato anche di un potere proprio come arbiter dello scacchiere politico-finanziario nazionale, casella di quello “occidentale”.
Carli era riuscito a non farsi stritolare dalla prima fase della guerra Cuccia-Sindona, quella ruotata attorno alla leggendaria “lista dei 500” esportatori illegali di capitali transitati attraverso il Banco di Roma. Fu invece schiacciato dalla più recente “guerra per banche” il governatore Antonio Fazio, gran protettore di Cesare Geronzi alla Banca di Roma e avversario della Mediobanca di Vincenzo Maranghi.
Quella del 2005 – l’estate rovente delle Opa su AntonVeneta e Bnl – fu comunque una guerra bancaria alla fine meno cruenta della precedente. Invece nessuno sa quanto lunga e bloody potrebbe rivelarsi una nuova guerra per banche di cui ogni giorno si moltiplicano le avvisaglie: le schermaglie attorno a Mps, tutt’altro che stabilizzato; il caso Popolare di vicenza, che ieri il governatore Visco ha stranamente minimizzato; l’inchiesta sul vicepresidente di UniCredit, Fabrizio Palenzona. Di questa guerra l’Italia non ha bisogno. Il governo e la Banca d’Italia dovrebbero fare il possibile per evitarla: esercitando con puntualità e determinazione i loro poteri amministrativi e di vigilanza. Invece il primo è parso – in più di un’occasione – gettare benzina (politica) su falò pericolosamente accesi. Via Nazionale sembra d’altronde troppo spesso in ritardo, se non impreparata ad affrontare crisi singole e di sistema: che – certamente – non sono seminari Ocse o Fmi; e tanto meno pranzi di gala.