Ancora un mese fa nessuno aveva dubbi: il problema dell’euro, dell’Europa, della Germania, di tutti e tutto era l’Italia. E il problema dell’Italia era il governo Berlusconi. Oggi la prospettiva è completamente rovesciata. Basta leggere il sermone laico di Sergio Romano su Il Corriere della Sera di domenica: è la Germania a essere divenuta, di punto in bianco, il problema dell’euro e – in specifico – degli sforzi dell’Italia di stabilizzare il suo debito pubblico e rilanciare la sua crescita. È la Germania la palla al piede del nuovo governo Monti. E nelle celebrazioni del ritrovatoa “euro-trilateral” Merkel-Sarkozy-Monti, a qualcuno non è in fondo spiaciuto immaginare che fosse il “super-tecnico” italiano a soccorrere un po’ i due acciaccati “politici” della “core Europe”.
Non sono tuttavia giorni per indulgere nel costume politico, neppure quando è serio è sostanziale: come quando il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha polemizzato con gli “oroscopisti dello spread”, convinti che l’effetto-Berlusconi producesse almeno la metà del 6% di costo dei Btp (nel frattempo salito all’8%). Non val nemmeno la pena soffermarsi sugli aspetti più tragicomici delle ultime settimane: ad esempio, l’appello anti-democratico del presidente belga dell’Ue Van Rompuy (“L’Italia ha bisogno di riforme, non di elezioni”), mentre il Belgio non riesce a darsi un governo da due anni ed è nel mirino delle agenzie di rating.
Ma quali sono i connotati della “nevrosi tedesca”? E come ciò interpella l’Italia? Può essere utile richiamare un evento politico-economico ancora nella memoria di tutti: la riunificazione della Germania. Vent’anni fa, alla caduta del muro di Berlino, la Germania Ovest decise di “riannettere” i lander dell’Est dopo quarant’anni di colonizzazione sovietica. Un passo squisitamente storico-politico che dovette peraltro misurarsi con precisi vincoli economico-finanziari. All’Unione Sovietica, moribonda, venne pagata, ad esempio, una “buonuscita” di alcuni miliardi di dollari sotto forma di rimborso-spese per lo smantellamento degli apparati militari del Patto di Varsavia. Ma il passo più rilevante fu senza dubbio la decisione – da parte del cancelliere cattolico Helmut Kohl – di concedere il cambio alla pari per i marchi detenuti da 17 milioni di ex tedeschi dell’Est. Era una scelta chiaramente non sostenuta dai fondamentali economici: l’ex Germania Orientale era un’azienda-Paese infinitamente meno produttiva di quella Occidentale.
Le monete da un marco a Berlino Est non esprimevano, con tutta evidenza, il valore che era nelle tasche dei tedeschi al di qua del Muro. Non stupì che il presidente della Bundesbank, Karl-Otto Pohel, si dimettesse: temeva inflazione e disordine monetario nella nuova area del “marco allargato”, tanto più che la Germania Occidentale era già sul sentiero di convergenza dell’euro. Ma la “nuova Germania” alla prova – a differenza di quella degli anni Venti – non fallì: ed è un fatto che il cancelliere in carica sia nato all’Est e abbia formato la sua leadership politica nel difficile processo di re-integrazione tedesca.
I tedeschi dell’Ovest corsero in ogni caso il rischio consapevole di mettere in tasche altrui (anche se di “connazionali”) potere d’acquisto monetario che non esisteva. Da un lato ci fu la volontà condivisa di sostenere un “costo” per un obiettivo di lungo periodo: la Germania unita fu vissuta sul piano storico sia come dovere che come opportunità (una Germania unita è comunque meglio di una Germania divisa). Sull’altro versante c’era la fiducia nelle capacità della Germania Occidentale di ristrutturare con successo quella Orientale, alzando i suoi standard di produttività industriale, efficienza amministrativa, dinamismo sociale.
È vero che, vent’anni fa, i mercati finanziari non erano ancora cosi grandi e integrati al punto da mettere sotto pressione i grandi Stati-nazione: prima con le loro crisi sistemiche, poi con le loro pretese di sopravvivenza autoreferenziale. In altri termini: ancora vent’anni fa una moneta come il marco era effettivamente sotto la sovranità di uno Stato nazionale, ancorché fosse già iniziato un diverso “processo storico” chiamato “globalizzazione finanziaria”. È questa, probabilmente, la differenza più importante tra i tedeschi alle prese col “marco allargato” e quelli alle prese, oggi, con i problemi dell’euro assieme agli altri europei. Per altri versi, le analogie non sono poche. L’Europa è – è stata finora – una sfida politica non diversa da quella della Germania unificata: un processo storico complesso, non uno sviluppo meccanico dell’economia finanziaria. È vero che l’intento dei “padri fondatori” del Mercato comune (cominciare a creare sul terreno economico condizioni di pace duratura nell’Europa continentale distrutta da due guerre mondiali) è via via evoluto in un altro orizzonte strategico: costruire un’area economica competitiva a livello globale in un mondo “liberalizzato”, integrato, abitato da nuovi soggetti “emersi” dal sottosviluppo. Ancora una volta, comunque, una scommessa: un’Europa unita è meglio di un’Europa divisa. Una scommessa con alcune premesse logiche e altrettante evidenze empiriche, ma pur sempre una scommessa: un atto di volontà politica, “storica”. E la moneta unica è stata la prima realizzazione compiuta di un “atto di volontà” durato quasi mezzo secolo da parte di un numero crescente di europei.
È pur vero che questo passaggio storico ha segnato un parziale ritiro della politica a favore del mercato: l’euro nasce “senza sovrano”, con una banca centrale come “pilota automatico”, ma senza un governo politico (analogo a quello a Bonn che si assunse la rischiosa responsabilità di unificare Berlino). Si può discutere se lo start-up dell’euro privo di politica fiscale sia stato un rischio paragonabile a quello di varare una Costituzione “burocratica” dell’Ue priva di qualsiasi riferimento a radici culturali e religiose. Si può recriminare anche – in chiave storica, non tecnico-economica – se non sia una contraddizione insostenibile che la Gran Bretagna (piattaforma dei mercati finanziari al di qua dell’Atlantico) sia dentro l’Unione europea e fuori dall’euro.
Nessuno può negare che la Germania – più ancora della Francia – sia sempre rimasta al tavolo di quella scommessa. L’Italia anche: “giusto o sbagliato” ha risanato negli anni ‘90 le sue finanze pubbliche, agganciando l’euro anche a prezzo di privatizzazioni discutibili sul piano delle cifre e della politica industriale (la Grecia? Beh al tavolo c’è stata indubbiamente con minor impegno: forse perché è stata ammessa quando l’euro era già in corsa; e i suoi conti erano stati sistemati da un’importante banca d’affari globale).
Nessuno può ignorare le questioni profonde da sciogliere. La prima è che il valore dell’euro resta una “scommessa”: un atto di volontà storico-politica in un quadro di compatibilità economiche. Tra le situazioni con cui fare i conti c’è il fatto che i mercati non possono essere tacitati con un “superbonus una tantum”, come quello a suo tempo riconosciuto dalla Germania al Cremlino: la speculazione è più esigente e a essa partecipano anche i cittadini-risparmiatori e le banche dell’Europa. I grandi gestori internazionali tengono infatti sotto pressione bond e valute in base a un’ideologia molto diversa da quella del “socialismo reale”: quella del rendimento a breve termine dei capitali finanziari. All’esito della scommessa-euro non sarà quindi indifferente l’uscita dalla crisi bancaria, tuttora in alto mare, per ragioni solo apparentemente tecniche.
La questione, in estremi sintesi, è: le banche che hanno decretato il collasso dei mercati, che sono state salvate dagli Stati e che ora speculano sulla liquidità “d’emergenza” devono continuare a condizionare la stabilità degli Stati e dei contribuenti che le hanno salvate? Questo sì è un tema su cui anche l’opinione pubblica tedesca è divisa: e su cui, probabilmente, restano distanti le posizioni tra la Merkel, il premier tecnico italiano Monti e il presidente italiano della Bce, Draghi. D’altro canto vent’anni fa la Cina non c’era: oggi è il maggior competitor economico di tutte le altre aree del pianeta e investe in euro una parte rilevante dei suoi surplus commerciali. E il “muro” dell’euro alto non solo facilità l’export cinese in Europa, ma frena quello europeo in tutta l’area del dollaro. E il Pil debole (o addirittura recessivo) rende meno sostenibili le già precarie finanze pubbliche di molti paesi europei (ormai praticamente di tutti), innescando la speculazione sui debiti pubblici.
Che fare? Draghi, appena insediato alla Bce, ha tagliato i tassi, guardando agli “stimoli monetari” già lanciati in abbondanza dagli Stati Uniti. La Germania nicchia: l’euro va “meritato”, non si possono distribuire banconote senza regole a chiunque (greci, italiani, spagnoli, ecc.). La moneta resta la certificazione di un valore distribuito in quanto prodotto o producibile: come, ad esempio, nella Germania Unita del 1990. Resta una leva nelle mani dei governi per fare scelte politiche, non delle banche centrali che ogni giorno duellano con i mercati, un po’ combattendoli, un po’ assecondandoli. E se la Merkel continua a rifiutare gli eurobond, in realtà continua a denunciare un equivoco: le euro-obbligazioni garantite “da tutti” non sono la soluzione in sé, ma sono lo strumento tecnico di una scelta politica. Quella di difendere l’euro e con esso la “scommessa” sulla competitività dell’Europa, che presuppone una capacità interna delle imprese, delle istituzioni, della società civile.
Nessuno obbliga la Germania, la Francia, l’Italia e neppure la Grecia a onorare la “scommessa-euro”, così come nessuno obbligava la Germania di Kohl a integrare quella sovietica. Oggi può essere una scelta anche “lasciar vincere” i mercati. Ma il problema non è la Germania. Tanto meno per l’Italia: dove non è stata certo la “scelta” apparente fra Berlusconi e Monti ad aver cambiato i termini della “scommessa”.