C’è un paradosso che si fa minacciosamente strada sul tema dell’educazione, e quindi sulla necessità di riformare la scuola per renderla più vicina agli interessi e alle esigenze della società. Il paradosso è che mentre si parla, e giustamente, di società della conoscenza, si vorrebbe portare la scuola ad un maggiore tasso di apprendimento tecnico-pratico come possibilità di offrire maggiori possibilità ai giovani di inserirsi nel mondo del lavoro.
Ma che cosa vuol dire “società della conoscenza”? Vuol dire due cose essenzialmente. Il fatto che l’attuale dinamica economica sia largamente collegata al trattamento delle informazioni e l’ormai netto predominio del settore dei servizi rispetto a quello industriale, almeno nelle società occidentali. In questa prospettiva se è vero che sono richieste sempre maggiori e sempre più specializzate competenze tecnologiche è altrettanto vero che un ruolo da protagonista verrà sempre più svolto da chi saprà valere la creatività sulle procedure e la soluzione di problemi nuovi rispetto alla prassi consolidata.
Ecco allora che il compito della scuola appare fondamentale non solo per dare ai giovani la possibilità di aprire l’atlante della conoscenza, ma soprattutto per fornire loro i criteri di giudizio essenziali per muoversi in una società dinamica e in continuo cambiamento.
Per raggiungere questo obiettivo tuttavia l’istruzione tecnica non può che integrarsi con quell’istruzione umanistica che costituisce il pilastro fondante della tradizione scolastica italiana. Come sottolinea Dario Antiseri nel libro dal titolo molto significativo “Dalla parte degli insegnanti” (Ed. La scuola, pagg. 240, € 14,50) “il primo servizio alla comunità ai nostri giorni è diventata la difesa della democrazia, di quella “società aperta” che può venir presidiata unicamente da “menti aperte”, libere, creative e responsabili, pronte a riconoscere i propri errori e quelli altrui, capaci di non rimanere preda di tanti imbonitori prezzolati, per non venire ingannati in un’epoca di menzogna organizzata”.
Ecco quindi la necessità di un sistema formativo che educhi alla razionalità, ma insieme alla passione, che spinga alla ricerca e che mantenga quel pensiero critico necessario a navigare in un mondo in cui le informazioni sono altrettanto vaste quanto tutte da verificare.
In pratica questo vuol dire che la vecchia scuola ha ancora molto da insegnare, che i modelli pedagogici tradizionali hanno ancora una grande validità, pur integrati con lo sviluppo delle conoscenze tecnologiche. I vecchi strumenti come il riassunto, il tema, la traduzione, hanno una precisa valenza pedagogica anche perché valorizzano l’interpretazione personale insieme alla capacità interpretative.
Il tutto per stimolare una creatività che, afferma Antiseri, “non può essere insegnata” abituando alla soluzione dei problemi (qualcosa di diverso dalla semplice esecuzione di esercizi) e all’eliminazione della paura degli errori. Imparare dai propri errori, come insegna Karl Popper, è uno dei punti fondamentali di un cammino educativo, anche perché vuol dire ammettere che l’errore è una dimensione ineliminabile dell’agire umano. Attenzione quindi alla falsa modernità di chi vuole una scuola unicamente tecnologica e scientifica. La persona, unica e irripetibile, non può essere catalogata negli schemi astratti di una conoscenza pragmatica e con l’illusoria etichetta della razionalità. La libertà di educazione va vista anche in questa prospettiva: offrire ai giovani i criteri di giudizio necessari per affrontare la realtà, perché non c’è libertà dove non c’è capacità di riconoscere i valori.