In tanti si sono chiesti se Giuliano Pisapia e la sinistra avrebbero vinto le ultime comunali di Milano se l’elettorato fosse stato informato che l’inchiesta su Filippo Penati e Sesto San Giovanni aveva già rivelato fatti molto gravi, almeno politicamente. Ieri sera, in Popolare di Milano e nei suoi dintorni, in molti si sono chiesti quali sarebbero oggi le prospettive del gruppo se all’assemblea di un mese fa avesse prevalso lo schieramento che aveva come punta di lancia Matteo Arpe. L’ex amministratore delegato di Capitalia è stato condannato ieri dal Tribunale di Parma a 3 anni e 7 mesi in un processo laterale al crack Parmalat: quello per la vendita “forzata” delle acque minerali Ciappazzi dal gruppo Ciarrapico a quello di Collecchio. A Cesare Geronzi, presidente di Capitalia, sono stati inflitti 5 anni: sempre in primo grado, beninteso, e (almeno nel caso del banchiere romano) con almeno un precedente di rovesciamento della pronuncia nel successivo appello (per il crac Italcase). Tuttavia sia per Geronzi che per Arpe il reato punito è stato pesante: bancarotta fraudolenta (per Geronzi anche usura aggravata). E se Geronzi, dopo la destituzione dalla presidenza Generali, è in un silenzioso “buen retiro”, il cinquantenne Arpe è invece reduce dall’ennesimo tentativo di rientrare nel circuito dei grandi affari e dei banchieri.
Proprio su ilsussidiario.net, in ottobre, ci chiedevamo quali potessero essere le garanzie offerte al futuro di Bpm dal finanziere che, dopo aver condotto dalla tolda di Mediobanca la “madre di tutte le Opa” su Telecom, era stato allontanato senza spiegazioni dall’Istituto ancora guidato da Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi. Un allontanamento che aveva avuto come approdo Lehman Brothers. Ma non c’era solamente un “raider” dallo smalto un po’ appannato dietro l’attacco frontale alla Bpm: c’era, neppure troppo tacitamente, la Vigilanza della Banca d’Italia del governatore Mario Draghi. C’era l’establishment della finanza “democratica”, simboleggiata dal candidato presidente Bpm: l’economista Marcello Messori, ex presidente dell’Assogestioni, cioè dei grandi gestori italiani di fondi comuni. C’era una centrale sindacale come la Cisl di Raffaele Bonanni, personalmente in capo a fianco di Arpe, a braccetto con la Fisa-Cgil. Insomma, c’erano tutti i sedicenti “buoni” contro i dipendenti-soci e le loro organizzazioni para-sindacali, “cattivi” da sempre, per definizione.
Su ilsussidiario.net non abbiamo mai difeso “a prescindere” l’autogoverno di Piazza Meda da parte dei dipendenti soci. Abbiamo sempre elencato tutti gli “incidenti di percorso” che hanno periodicamente messo a rischio la “sana e prudente gestione”, il bilancio e l’immagine dell’ultima banca milanese “di territorio”. Anche le indagini giudiziarie aperte sull’ormai ex presidente Massimo Ponzellini non sono affatto leggere o marginali, così come gli episodi contestati dalla Vigilanza riguardo i meccanismi di compenso e le carriere interne alla Popolare. E bene o male i 4.300 “Amici della Bpm” che hanno nuovamente imposto in assemblea il loro ruolo hanno dovuto accettare cambiamenti non trascurabili: il modello duale che allontana la presa dei soci dalla gestione proprio quando è entrato come azionista imprenditoriale Andrea Bonomi, apportando 800 milioni di nuovi capitali.
È lui che ora sta cercando una trentina di dirigenti destinati a mutare completamente il volto della Popolare. Seguiremo attentamente il suo lavoro. Non senza sottolineare che – al suo posto – poteva oggi ritrovarsi condannato per gravi reati un banchiere coinvolto nel più grave disastro della storia finanziaria italiana. Un campanello d’allarme – il crac Parmalat, cinque anni prima del fallimento Lehman – che anche allora molti preferirono ignorare.