Mi spiace ammetterlo, ma sono rimasto un po’ deluso dalle dichiarazioni del ministro Fabrizio Saccomanni sull’evasione fiscale, perché mi aspettavo qualcosa di diverso dalle solite dichiarazioni di principio tipiche dei politici, senza alcuna indicazione sulla direzione e le modalità di applicazione. Mi aspettavo qualcosa di diverso da Saccomanni, fino all’altro giorno direttore generale della Banca d’Italia, un ruolo che dovrebbe superare i limiti del tecnico e del politico, perché li combina entrambi. In più, da quell’osservatorio privilegiato si dovrebbe avere una visione ben chiara della realtà.
Pur dando per scontato l’usuale ritornello della lotta dura alla evasione, potevano essere evitate ovvietà come “L’evasione privilegia chi evade e danneggia chi è onesto” o affermazioni tipo “L’evasione fiscale distorce la concorrenza tra imprese”, dimenticando le distorsioni “legali” arrecate dal ripianamento a carico dei contribuenti dei bilanci di alcune aziende privilegiate. Ancora una volta si è posto tutto l’accento sull’evasione, evitando di mettere seriamente in discussione il sistema fiscale attuale e il modo in cui viene applicato. Per la verità, Saccomanni ha fatto un cenno in tal senso, quando ha parlato della necessità di facilitare l’adempimento degli obblighi fiscali per i contribuenti onesti, ma senza alcuna indicazione di cosa questo significhi in concreto.
Eppure, un anno fa, il Presidente della Corte dei Conti, in un’audizione alla Commissione parlamentare sull’anagrafe tributaria, aveva denunciato la farraginosità del nostro sistema fiscale, indicando la necessità di ripensarlo interamente. Come se non bastasse, perfino il capo dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, a una riunione dei Caf, aveva dichiarato che compilare da soli un 730 è una missione quasi impossibile, aggiungendo: “Il fisco italiano è un pachiderma. C’è stata una vera e propria bulimia delle norme fiscali negli ultimi 40 anni”.
Né il precedente Parlamento, né il governo Monti hanno fatto niente di serio in tale direzione, ed è indubitabile che mettere mano alla revisione del nostro sistema fiscale non sia una cosa fattibile da un giorno all’altro. Ciò non toglie che sarebbe stato essenziale un impegno del ministro in tal senso, invece che la solita, sterile denuncia del problema.
Un caso concreto su cui governo e ministro avrebbero potuto prendere immediatamente posizione è il modo in cui vengono applicati gli studi di settore, che non dovrebbero essere considerati strumenti di accertamento diretto, come ripetutamente assicurato dai precedenti governi, con Berlusconi in prima linea.
Essendo solo delle stime, che per molti versi richiamano la media di Trilussa, dovrebbero essere utilizzati come indici da utilizzare per approfondire i singoli casi, accertare una possibile evasione, valutarne la gravità, e la convenienza a procedere, e poi addivenire a un confronto con il contribuente.
Invece, tali accertamenti mi risultano spesso inviati senza alcun approfondimento preliminare, ai contribuenti il cui fatturato si sia rivelato per il terzo anno non coerente con i suddetti studi. Per di più, con l’inversione dell’onere della prova, per cui è il contribuente che deve provare di non aver emesso fatture, e non l’Agenzia che non sono state effettivamente emesse fatture per servizi o beni venduti. Il che, oltre che rovesciare un fondamentale principio del diritto, trasforma il confronto fiscale in una sorta di dimostrazione per assurdo.
In questa situazione, un evasore reale può risultare “in regola”, dichiarando un 10% in più di quanto previsto dal relativo studio, anche se in realtà ha fatturato il doppio. Per converso, il contribuente onesto che, per ragioni oggettive o soggettive, ha fatturato meno di quanto previsto per il suo settore, si trova di fronte a due alternative: aderire alle richieste del fisco, contrattando uno sconto, o sobbarcarsi a un lungo e costoso ricorso. Per la verità, esiste una terza via per rimanere un contribuente “onesto”, almeno per il fisco: emettere fatture false fino a raggiungere il fatturato obbligatoriamente stabilito dal fisco. Questa situazione mi è stata descritta da molti amici o conoscenti e non ho motivo per ritenerla esagerata; comunque, può essere facilmente verificata.
Un altro punto immediatamente affrontabile, perché del tutto operativo, è l’ormai invalsa abitudine dell’Agenzia delle Entrate di entrare in azione, almeno nella maggior parte dei casi, allo scadere del quinto anno, termine oltre il quale scatta la prescrizione. I tempi di reazione lasciati al contribuente sono, solitamente, di 60 giorni. Non sembrerebbe un modo di procedere né equo, né tantomeno efficiente, né per il fisco, né, fuor di dubbio, per il contribuente.
Vorrei chiedere al ministro Saccomanni cosa ha a che fare tutto questo con la lotta all’evasione. A me sembra piuttosto una lotta al contribuente onesto.