Il brillante economista americano J.K. Galbraith sosteneva che gli economisti sono quei personaggi che si fanno pagare per spiegarvi perché hanno sbagliato le previsioni per le quali li avete pagati la volta prima. Evidentemente esiste negli Usa un ricco mercato della consulenza che avvantaggia le finanze personali degli economisti e che non trova tuttavia equivalente al di qua dell’Atlantico. In Europa gli economisti, forse perché non pagati per spiegare gli errori, passano senza soluzione di continuità da una previsione errata all’altra senza sentire il dovere di soffermarsi sul perché hanno sbagliato la volta prima.
Dissociandomi da questa prassi vorrei invece dedicare questo contributo a un breve riesame di cosa ho indovinato e cosa ho sbagliato sul caso Alitalia, avendolo seguito sulle pagine del Sussidiario a partire dalla crisi, e conseguente salvataggio a spese del contribuente, del 2008 e sino agli eventi più recenti.
Che il piano Fenice non avrebbe funzionato è stata senza dubbio la previsione più azzeccata. Devo dire, per doverosa attenuazione dei miei meriti, che era una previsione molto facile, semplicemente basata sulla conoscenza delle caratteristiche e delle tendenze del mercato del trasporto aereo. Non era dunque necessaria alcuna sfera di cristallo del mago. Che non avrebbe funzionato lo dissi inoltre con enfasi e lo scrissi in diversi luoghi, anche al fine di mettere in guardia coloro che nell’operazione si apprestavano a perdere (e far perdere) parecchi soldi. Ecco qualche titolo dell’epoca: “Le ragioni per dire no al Piano Fenice di Intesa-San Paolo” fu il mio primo contributo in tema di Alitalia sul Sussidiario del 5 agosto 2008, quando del Piano Fenice erano emerse solo alcune caratteristiche basiche. Il pezzo fu pubblicato anche da Milano Finanza il 7 agosto col titolo “Vi spiego perché non mi convincono contenuti e perimetro del Piano Fenice”. In esso contestavo essenzialmente due scelte: i) l’esiguità dell’investimento annunciato dai nuovi azionisti, compreso tra 700 milioni e un miliardo, rispetto alle esigenze di rilancio dell’azienda le quali avrebbero richiesto un importo all’incirca triplo; ii) la scissione tra “bad company” e “good company”, che avrebbe avuto senso solo in presenza di dissesto patrimoniale dell’azienda (coi debiti superiori agli asset) congiunto tuttavia a sostenibilità industriale dell’attività di volo (coi ricavi operativi in grado di recuperare i costi operativi), l’assenza della quale era invece il problema principale da risolvere.
Due settimane dopo ritornavo sulla crisi Alitalia (“I conti peggiorano e il salvataggio diventa sempre più una mission impossible“) evidenziandone, in assenza di interventi, il deterioramento della domanda e dei conti e manifestavo la necessità di un «azionista dalle spalle finanziarie molto larghe e dalle idee di ristrutturazione molto chiare», identikit al quale risponde ora Etihad e forse allora Air France-Klm, mentre «dell’incerta cordata Intesa-San Paolo (era) lecito dubitare tanto in relazione al primo aspetto quanto, soprattutto, in relazione al secondo».
Nel successivo contributo del 27 agosto (“Riuscirà a decollare la nuova Compagnia Aerea Italiana?“), ripreso anche da Libero Mercato, diretto da Oscar Giannino, analizzavo le condizioni necessarie per la sostenibilità industriale del vettore: «Il rilancio dell’azienda e il conseguimento dell’equilibrio economico richiedono un piano industriale in grado di individuare una cura adeguata per la gestione e, preliminarmente, una piena consapevolezza sui malanni di Alitalia che, contrariamente a quanto universalmente creduto, si trovano quasi tutti dal lato dei ricavi e non dal lato dei costi. La compagnia non soffre infatti di particolare inefficienza costo e i suoi costi unitari (costi operativi per posto km offerto) non appaiono anomali rispetto alle altre compagnie di bandiera, tra le quale Air France che intendeva acquisirla.[…] I problemi di Alitalia emergono invece dal lato dei ricavi (generati dal mix di offerta sbilanciato sul breve raggio) […]. La vera grande anomalia di Alitalia, il maggiore problema del nostro vettore, è il sottodimensionamento del lungo raggio in favore del breve. E in Europa le compagnie specializzate sul breve raggio guadagnano (tranne l’ottimo 2007 che non fa testo) solo se sono grandi vettori low cost o compagnie di paesi nei quali la concorrenza non si è fatta ancora troppo sentire. Alitalia è al di fuori, per caratteristiche intrinseche, da tutti i sottoinsiemi potenzialmente profittevoli: non può contare sui margini positivi del lungo raggio, sul vantaggio di costo dei vettori low cost e neppure su una ridotta concorrenza nel mercato in cui opera; per di più non è affetta da inefficienze gravi e palesi che potrebbero essere facilmente e rapidamente rimosse da una gestione industriale non più zavorrata da vincoli politici e sindacali. Per queste ragioni la pista del suo risanamento appare tutta in salita (a meno che non si voglia riabolire la concorrenza, danneggiando i consumatori)».
Come il lettore ben sa, si cercò con la legge salvAlitalia di percorrere la strada della riduzione della concorrenza, senza peraltro riuscire in tal modo a rendere più agevole la pista del risanamento del vettore. Nello stesso pezzo illustravo inoltre i vantaggi dell’offerta sul lungo raggio ai fini della sostenibilità e profittabilità della gestione: «Un fattore […] importante (ai fini della profittabilità) è invece rappresentato dal grande peso dei voli a lungo raggio nell’attività di queste compagnie: Air France e British realizzano ben l’87% del loro traffico passeggeri e merci, misurato attraverso le tonnellate km trasportate, su voli intercontinentali, mentre solo il 13% è effettuato all’interno dei confini europei; per Klm il peso del segmento extraeuropeo arriva al 90% mentre in Lufthansa si attesta all’84%. Il lungo raggio gode di due grandi vantaggi: (a) all’aumentare della lunghezza del volo i costi unitari tendono a decrescere anche sensibilmente a causa della minore incidenza dei costi rilevanti connessi alle fasi di decollo, atterraggio e uso delle infrastrutture aeroportuali oltre che dei minori consumi di carburante nelle fasi di crociera (in un volo di 5 mila miglia il costo per posto km offerto è inferiore al 50% rispetto a quello del posto km su un volo di 500 miglia); (b) i collegamenti intercontinentali sono non liberalizzati, salvo eccezioni anche rilevanti quali il regime open sky Europa-Usa, e soggetti generalmente a regimi duopolistici regolati da accordi bilaterali tra stati. In breve l’industria europea del trasporto aereo è sintetizzabile nel seguente modo: (i) nel lungo raggio i costi unitari sono minori per ragioni di tecnologia di produzione e la scarsità di concorrenza permette ricavi unitari superiori ai costi; (ii) nel breve raggio i costi unitari, più elevati, stentano a trovare copertura nei ricavi a causa dell’intensa concorrenza che i vettori low cost, organizzati secondo un differente modello di business, esercitano nei confronti dei vettori tradizionali; (iii) i vettori di bandiera “full service” tendono a coprire i margini negativi del breve raggio con i margini positivi del lungo, modificando in tale senso anche il mix dell’offerta (nel 2006 i vettori AEA hanno guadagnato solo sul lungo raggio); (iv) più volano “lungo” più guadagnano (in particolare i tre gruppi che abbiamo ricordato), più volano “corto” più perdono, con un break even sostanzialmente collocato a circa il 40% di attività sul lungo raggio. Alitalia ha sempre volato “corto”, essendo tradizionalmente specializzata sul segmento domestico e su quello europeo; dispone di pochissimi aerei adatti al lungo raggio (circa il 15% del totale) e dopo la crisi del 2001 ha fatto il grosso errore di ridimensionare in maniera permanente anziché solo transitoria la sua offerta sull’intercontinentale. Alitalia, con il suo modello di business e di offerta che il piano Fenice sembra non rimettere in discussione, ha sempre perso».
Mi pare che questa sia la spiegazione migliore che si possa dare del perché Alitalia, dopo aver perso come vettore a proprietà pubblica sino al 2008, abbia continuato a perdere anche come vettore a proprietà privata dal 2009 al 2014. Questa spiegazione, inoltre, è stata data ex ante, prima ancora che la nuova cordata di imprenditori privati trovasse forma, che il piano Fenice divenisse noto, che il nuovo vettore decollasse a metà gennaio 2009. Dal 2009 al 2013 gli azionisti hanno complessivamente perso più di 1,5 miliardi di euro, cifra che potrebbe salire a 1,8 miliardi includendo l’anno in corso. Inoltre le banche creditrici hanno dovuto rinunciare a due terzi di 560 milioni di crediti e accettare di convertire in capitale il restante terzo.
Questi sono i costi, per fortuna privati e non pubblici, dell’aver adottato un piano d’impresa che ha preso per buono un modello di business sbagliato. Una volta definita la flotta, e questo è avvenuto prima che la nuova azienda partisse, ben poco poteva fare la gestione aziendale per correggere il tiro e migliorare la situazione economica in corso d’opera. Infatti, la gestione può spostare un aereo a lungo raggio da una rotta a lungo raggio non profittevole verso una profittevole ma non può certo spostare un aereo di breve raggio da una rotta di breve raggio non profittevole verso una di lungo. Se non vi sono rotte alternative di breve raggio profittevoli può solo lasciarlo a terra, purtroppo con notevoli effetti negativi sull’occupazione.
Questo è, in grande sintesi, la situazione di Alitalia ora, molto simile a quella del 2008. La gestione di Alitalia in questo tempo è stata a mio avviso pressoché ineccepibile, tuttavia con il management vincolato dalla tipologia di aerei in dotazione a eseguire un piano d’impresa sbagliato in partenza. Grazie alla buona gestione che ha completamente rinnovato la flotta, eliminato i vecchi limiti in termini di puntualità, regolarità e qualità del servizio e rimosso le interferenze sindacali e politiche nella gestione, la nuova crisi si è manifestata solo sei anni dopo la precedente, smentendo la mia previsione che ve ne sarebbe stata un’altra dopo un triennio e che avrebbe condotto il vettore sotto un pieno controllo francese (“Tra tre anni tutta in mano ad Air France nonostante un decreto ad hoc“, contributo sul Sussidiario del 29 agosto 2008).
(1- continua)