Temo che stiano preparando l’assalto, troppa calma sui mercati. Il segnale politico che giunge dall’Italia post-voto, l’unico Paese dei cosiddetti Piigs che se salta fa saltare tutto, è chiaro: no a ulteriori politiche di austerity, no alle ricette della troika. Quindi, no alle richieste della Bce per l’attivazione del programma Omt, il cosiddetto scudo anti-spread. Ergo, la portata intimidatoria delle misure paventate della Banca centrale europea nei confronti della speculazione perdono di valore e portata, rendendo probabile un tentativo di assalto, giusto per saggiare le reali intenzioni e lo spazio di intervento di Mario Draghi.
D’altronde, che la gente sia stanca di austerity lo dimostrano le notizie giunte ieri da tre dei Piigs. Partiamo dall’Irlanda, dove il capo della confederazione sindacale, David Begg, ha così definito l’attività di Bce-Fmi-Ue: «La troika ha fatto più danni all’Irlanda che 800 anni di dominazione britannica. L’immagine del nostro Paese come poster della bontà delle ricette di austerità e icona della ripresa europea è soltanto un mito coltivato dai creditore europei, il cui unico interesse è recuperare i loro soldi. Alla fine i dirigenti del Fmi hanno ammesso di essersi sbagliati, mentre quelli europei sono totalmente ideologici. È come essere durante la Prima guerra mondiale, quando i generali sacrificavano milioni di vite per guadagnare un metro di terreno e nulla faceva cambiare loro idea, nonostante l’evidenza della situazione».
I dati, parlano chiaro: i consumi interni in Irlanda sono crollati del 26% e gli investimenti hanno toccato il punto più basso da quando nel Paese vengono registrati i dati che li riguardano. La sottoccupazione ha toccato il 23%, nonostante l’ondata di immigrazione verso Usa, Canada, Australia e Usa che ha di nuovo colpito il Paese. Al netto di questo, i sindacati irlandesi – vagamente meno ideologici di quelli italiani – hanno appena firmato un accordo con il governo per un taglio ulteriore dei salari del settore pubblico del 5,5%, con un picco fino al 10% per categorie a reddito più alto, come i medici. Il tutto, ad aggravare un taglio già in atto del 14%. Resta poi la questione del debito, al 120% del Pil e destinato ad andare completamente fuori controllo se i creditori non accetteranno uno swap con sostanzioso haircut, tanto più che se il sistema bancario appare normalizzato dopo le nazionalizzazioni, resta il nodo irrisolto del settore immobiliare: il prezzo medio delle case in Irlanda è crollato del 50% e, nonostante gli istituti stiano dilatando i tempi dei pagamenti del mutui, piuttosto che procedere a pignoramenti, la situazione appare a forte rischio se l’economia e la domanda interna non ripartiranno.
E che dire della Spagna, i cui politici si lagnano con l’Italia perché la nostra instabilità politica sta contagiando la loro economia? Bankia, la superbanca nata dalla fusione di sette casse di risparmio in bancarotta e nazionalizzata, ha chiuso il 2012 con una perdita record da 19,193 miliardi, dopo essere stata salvata grazie ad aiuti europei per 18 miliardi. Nel novembre scorso Bankia ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevede 4.500 esuberi, pari al 22% della forza lavoro attuale e la chiusura di oltre un terzo degli sportelli, ma anche questo programma draconiano appare decisamente insufficiente.
Ma lo stato di salute delle banche riflette quello del Paese. L’economia iberica, quarta dell’eurozona, si è contratta per il settimo trimestre di fila negli ultimi tre mesi del 2012, raggiungendo uno -0,8% che rappresenta un dato molto peggiore di quanto previsto per quanto riguarda la recessione. Il Pil si è contratto dell’1,4% nel 2012, rispetto a una crescita dello 0,4% nel 2011 e lo stesso governo ha ammesso che l’economia continuerà a contrarsi per tutto l’anno in corso. Certo, la ratio deficit/Pil nel 2012 è arrivata a 6,7% dall’8,96% del 2011, ma non è certo un dato di cui rallegrarsi, visto che il premier Rajoy aveva detto che avrebbe rispettato il target del 3% già quest’anno. L’output iberico si è contratto del 4,7% a causa della crollo della domanda interna, mentre l’export è cresciuto solo del 2,8% nel quarto trimestre dello scorso anno, come conferma l’Istituto nazionale di statistica: gli analisti si attendevano un calo dell’output solo dello 0,7% nei tre mesi conclusisi a dicembre. «I numeri chiave della Spagna sono in linea con una debolezza che rileviamo da tempo – ha dichiarato Guillaume Menuet, capo economista a Citigroup -. È solo una questione di tempo e i dati dell’economia reale sfideranno la falsa immagine di cui sono state ammantate molte nazioni europee negli ultimi sei mesi e ci confermeranno che l’austerità danneggia la crescita».
Per finire e tanto per gradire, la Grecia. Nel Paese, le vendite al dettaglio sono diminuite in dicembre dell’8,7% tendenziale. Lo ha reso noto l’autorità per le statistiche elleniche, spiegando che a questo trend si affianca la continua caduta libera della fiducia dei consumatori in un Paese che è ormai entrato nel suo sesto anno consecutivo di recessione. Il dato di dicembre arriva dopo il crollo del 16,7% (rivisto) accusato in novembre dalla domanda al dettaglio: analizzando le cifre dell’indice emerge che le voci più penalizzate (con arretramenti del 20% annui) sono state i prodotti farmaceutici e di cosmesi, seguiti dal capitolo abbigliamento (-12,7%). Sempre a dicembre, i consumi di carburanti sono calati dell’8,5% (-16,7% nel mese precedente). Ma è la voce dei farmaci a fare davvero paura, visto che molte multinazionali hanno bloccato le loro consegne verso il Paese a causa della crisi e la stessa Croce Rossa ha tagliato nettamente la fornitura di sangue per trasfusioni verso il Paese perché non ha pagato in tempo il dovuto: la Pharmaceutical Association greca ha reso noto che sono oltre 300 i medicinali le cui scorte stanno terminando nel Paese.
Inoltre, il presidente dell’Agenzia greca del farmaco, Yannis Tountas, ha reso noto che «le grandi multinazionali farmaceutiche trovano che la Grecia non sia un Paese in grado di generare un profitto per loro e temono che i medicinali, se inviati, verranno poi esportati verso altri paesi europei da traders senza scrupoli». Dal 2011, i fondi per la sicurezza sociale greci e gli ospedali del Paese hanno debiti verso le compagnie farmaceutiche per 1,9 miliardi di euro e in base a un primo accordo dovrebbero essere ripagati in tranche mensili da 500 milioni di euro, un qualcosa di attualmente impossibile. Inoltre, il fatto che i farmaci in Grecia costino oltre il 20% in meno sta diventando un nuovo alibi per le industrie del settore che intendono bloccare le forniture: «Il governo deve intervenire se vuole evitare un aumento delle esportazioni», ha dichiarato al Guardian il direttore generale di Novartis Grecia, Konstantinos. Insomma, un Paese morto. Anzi, ucciso dall’austerity.
Attenzione al combinato di politiche sbagliate e reazione popolare: se salta lo scudo della Bce, salta davvero tutto. E qualcuno, Oltreoceano come a Londra, comincia a farci un pensierino.