Gli avversari “interni” (ormai sono rimasti solo questi) fanno di tutto per perdere la sfida aperta con Matteo Renzi. Il loro fronte è diviso. La Cgil è ormai in balia di Maurizio Landini, il quale non mette sul piatto della bilancia soltanto la “spada di Brenno” dello sciopero generale della categoria, ma non è alieno dal provocare incidenti di piazza allo scopo di far crescere la tensione sociale. Questa linea di condotta – che si è espressa anche ieri a Brescia in occasione della visita del premier – alla fine fa il gioco di Renzi, il quale non può dare l’idea – di fronte al suo “nuovo” elettorato – di cedere alle pressioni dei sindacati, mettendosi a negoziare delle modifiche sostanziali al Jobs Act Poletti 2.0.
Dal canto suo, la sinistra Pd sembrerebbe orientata a far valere il suo peso in commissione Lavoro e in Aula alla Camera, per negoziare delle modifiche, in modo da imporre una terza lettura al Senato. Peraltro, salvo alcune posizioni di minoranza nella minoranza, la sinistra dem sarebbe disponibile ad attestarsi su emendamenti ricavati dall’odg votato dalla Direzione del 29 settembre. In sostanza, mentre il sindacato contesta il provvedimento a prescindere, i suoi referenti parlamentari cercano di renderlo – dal loro punto di vista – più accettabile. Ma Renzi, per ora, è deciso a tirare diritto, approfittando degli errori dei suoi avversari.
Ha in testa un piano preciso: a) in primo luogo, la Camera deve approvare il testo nella versione varata dal Senato, anche ricorrendo alla questione di fiducia; b) le sue uniche disponibilità si riducono a redigere e a far approvare dall’Assemblea un ordine del giorno in cui siano recepiti alcuni punti del documento della Direzione. Del resto una procedura analoga è già avvenuta al Senato. Una scelta siffatta potrebbe essere tollerata anche dagli alleati centristi dal momento che – come si dice in politica – “un odg non lo si nega a nessuno”; c) Renzi vuole che il tutto si risolva entro il mese di novembre, nel frattempo è già al lavoro un gruppo di esperti che sta redigendo – “novellando” il codice civile – il testo del decreto legislativo relativamente alla materia regolata dall’articolo 4 (Testo unico semplificato e contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio), in modo da farlo entrare in vigore a gennaio.
Intanto, i dati Istat sull’occupazione alla fine del terzo trimestre consentono di affermare un “Eppure si muove”. Il tasso di disoccupazione si è attestato al 12,6%, un livello che il mercato del lavoro sembra incapace di lasciarsi alle spalle. Si intravedono, però, alcune modifiche – modeste ma significative – per quanto riguarda l’occupazione giovanile nelle coorti (tra i 15 e i 24 anni, quelle che ormai vengono prese a riferimento): il tasso di occupazione cresce dello 0,2% rispetto al mese precedente e dello 0,5% rispetto ai precedenti 12 mesi.
Anche il tasso di disoccupazione giovanile vede una piccolissima inversione di tendenza (-0,8 % sul mese precedente) in un contesto complessivo caratterizzato da un incremento del trend negativo pari a 58mila unità. Più interessante, la diminuzione degli inattivi (-0,9% e -2,1% nei confronti di un anno prima): sta a significare che i giovani si mettono in numero maggiore sul mercato in cerca di un impiego.
I dati delle comunicazioni obbligatorie ci dicono che la riforma del contratto a termine sta producendo degli effetti sul piano delle assunzioni, anche se rimane tuttora d’ostacolo il “generale inverno” della crisi economica. La flessibilità “buona” (il nuovo contratto a termine) ha scacciato quote consistenti di flessibilità “cattiva” (le collaborazioni e le partite Iva, per esempio), in quanto la liberalizzazione progressiva del contratto a tempo determinato è stata accompagnata dal precedente giro di vite sui rapporti atipici, di cui alla legge n. 92/2012 (la riforma Fornero, appunto). Secondo un recente studio dell’Osservatorio dei lavori, che ha preso a riferimento i dati della Gestione separata presso l’Inps, nel 2013, rispetto al 2012, i parasubordinati sono diminuiti di 166.867 unità (-11,7%), i professionisti con partita Iva di 3.740 unità (-1,27%) secondo l’Inps; quest’ultimi, di 11.757 (- 4%) secondo stime realizzate e contenute nello studio.
Contrariamente a quanto si crede tali categorie di lavoratori sono quelle che hanno subito i tagli più vistosi dalla crisi e, nell’ultimo anno della ricerca, hanno subìto anche la penalizzazione normativa loro dettata dalla legge Fornero, “la quale imponeva – è scritto nello studio – nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e ‘favorire’ lo spostamento verso il lavoro dipendente, l’introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti”. Dal 2007 al 2013, i contribuenti “collaboratori” sono passati da 1,67 milioni a 1,25 milioni (con una diminuzione di oltre 400mila unità, pari al 24,7% di cui circa 167mila nell’ultimo anno, a legge n. 92/2012 in vigore).
Pur essendo in calo anch’essi nel 2013, negli anni della crisi sono aumentati (quasi del 31% dal 2007) i professionisti (questa è la definizione che attribuisce loro la Gestione separata) titolari di partita Iva, passando da 222mila a 291mila (altro che i milioni come lasciano credere le solite leggende metropolitane che mettono in conto anche le partite Iva delle aziende!). I lavoratori parasubordinati, in Italia, con il loro reddito (24 miliardi nel 2013) assicurano all’Inps un gettito annuo di 5,8 miliardi. Aggiungendo a tale ammontare anche il Pil prodotto dai professionisti si arriva a 29 miliardi con un gettito contributivo che sfiora i 7 miliardi annui. Mediamente, in Italia i parasubordinati hanno percepito 19.155 nel 2013 e 18.073 nel 2012.
È significativo – se si vogliono sfatare i tanti luoghi comuni – osservare la composizione sociale dei contribuenti iscritti, nelle diverse categorie di lavoratori parasubordinati, alla Gestione separata. Su 1,25 milioni, 506mila – ci limitiamo a ricordare alcuni casi – sono amministratori e sindaci di società (con un reddito complessivo di 16 miliardi; 31,8mila che innalzano notevolmente la media annua della Gestione); 12.335 partecipanti a collegi e a commissioni; 52mila giovani alle prese con un dottorato di ricerca; 28,6mila medici in formazione. Il paradosso vuole che i dottori di ricerca guadagnino di più durante il periodo di formazione rispetto alla retribuzione che potrebbero percepire una volta entrati nel mercato del lavoro. I collaboratori a progetto, i “dannati della terra”, sono poco più di 500mila, hanno percepito, nel 2013, un reddito superiore a 5miliardi (10,2mila euro in media).
Corre voce che, nel dare attuazione al Jobs Act Poletti 2.0, il Governo abolirà o ridimensionerà ancora di più le tipologie riconducibili alle collaborazioni a progetto. Consigliamo prudenza visto che su 1,2 milioni, 720mila hanno più di 40 anni. Ben 751mila sono uomini e 508mila sono donne. Ovviamente, non è detto che tutti costoro vivano del solo reddito (altro luogo comune) per il quale devono iscriversi alla Gestione separata (i dati degli amministratori di società stanno a dimostrarlo), ma molti usufruiscono soltanto di questa opportunità. Perduta la quale rimangono la disoccupazione o il lavoro nero.