Posso testimoniare di persona. Prima di accingermi a scrivere ho consultato diversi manuali di previdenza sociale senza riuscire a trovare nulla afferente al problema – l’ennesimo – di cui si parla a proposito delle pensioni degli italiani: la rivalutazione degli accantonamenti nel calcolo contributivo. Ancora una volta si tratta non di quelle già erogate (da cui Matteo Renzi ha inteso girare al largo), ma delle prestazioni future. Abbiamo già avuto modo, in questa stessa rubrica del martedì, di esprimere – parlando di criminalità economica – la nostra opinione sull’operazione Tfr in busta paga e nuovo regime fiscale dei rendimenti della previdenza complementare. L’aliquota passerà, se non vi saranno correzioni durante l’iter legislativo della Legge di stabilità, dall’11,5% al 20%; ciò comporterà un taglio netto nelle posizioni individuali su cui si calcolerà, a suo tempo e secondo criteri attuariali, la prestazione, dal momento che tali posizioni sono appunto costituite dai montanti contributivi versati e dai rendimenti conseguiti sui mercati. Una tassazione più onerosa determinerà, di conseguenza, un ammontare più ristretto su cui applicare i parametri di conversione del capitale in rendita.
Se si pensa a tutto quanto si è detto e scritto per almeno vent’anni sul ruolo strategico della previdenza privata a capitalizzazione a tutela dei giovani ovvero dei soggetti maggiormente penalizzati dalle riforme del sistema obbligatorio viene da chiedersi che senso abbia un cambiamento tanto vistoso in un settore come il risparmio previdenziale.
Mentre osservavamo ancora interdetti il progetto del Governo sui fondi pensione è venuto alla ribalta un’altra questione, risaputa ma dimenticata (a bella posta?), a prova riconfermata del fatto che, nel sistema pensionistico italiano c’è sempre il rischio di rimettere in discussione quei precari equilibri raggiunti dall’ultima riforma in ordine di tempo. Si tratta di un aspetto appartenente al codice genetico del sistema stesso, voluto così dal legislatore del 1995 nella convinzione di agire nell’interesse delle generazioni future.
Anche in questa circostanza il destino ha dimostrato, una volta di più, di essere sicuramente cinico e un po’ baro: costretta a denunciare il difetto genetico della legge n.335/1995 (la riforma Dini) è stata la persona che a quel tempo era ministro del Lavoro e che oggi siede sulla poltrona più importante del SuperInps, l’ente previdenziale più grande d’Europa e tra i primi al mondo, Tiziano Treu. Il Commissario straordinario dell’Inps si è limitato a ricordare quanto già si sapeva, e cioè che il trend negativo del Pil, secondo una corretta e meccanica interpretazione della legge, inciderà in modo egualmente negativo sul montante contributivo quale base di calcolo dei trattamenti obbligatori del futuro.
Mentre nel sistema retributivo la base di riferimento per il calcolo della pensione è quella della retribuzione percepita negli ultimi dieci anni (i nove che precedono il decimo sono rivalutati con un meccanismo ragguagliato all’inflazione), nel sistema contributivo si accredita – nel caso dei dipendenti – il 33% della retribuzione annua rivalutando il montante sulla base dell’andamento del Pil nominale riscontrato nei cinque anni precedenti. Allora, vent’anni or sono, nessuno avrebbe mai pensato che da quel calcolo potesse derivare un valore di segno negativo. Invece è successo, sommando inflazione zero e recessione.
La prospettiva è tutt’altro che incoraggiante, perché, se invece di aggiungere ai montanti l’importo della rivalutazione, si dovesse usare il segno meno, si finirebbe per incidere addirittura sui contributi accreditati, il cui ammontare serve come base per il calcolo della pensione. Il problema, poi, non riguarda solo quanto è già avvenuto negli ultimi anni sotto gli occhi di tutti, ma il futuro. Se nel 1995 si pensava, infatti, che non si sarebbe mai verificata l’ipotesi di un Pil con segno negativo, oggi sappiamo, invece, che tale circostanza non è affatto peregrina, è tutt’altro che un classico “caso di scuola” e che negli anni a venire non dobbiamo aspettarci solo la crescita. Occorrerebbe, allora, correre ai ripari.
La soluzione logica (una sorta di uovo di Colombo) sarebbe quella di “sterilizzare” gli indici negativi, come ha proposto lo stesso Tiziano Treu. Ma la Ragioneria generale dello Stato (Rgs) ha messo le mani avanti ribadendo che una correzione siffatta richiederebbe una copertura finanziaria tutt’altro che contenuta negli oneri o semplice da definire, visto che dovrebbe proseguire avanti negli anni in parallelo con lo svolgersi degli effetti della riforma Dini. A posteriori viene da chiedersi se, a suo tempo, l’adozione del calcolo contributivo non sia stato determinato da un vizio di intellettualismo, con qualche venatura ideologica, dal momento che il medesimo risultato poteva essere raggiunto rafforzando quanto aveva già stabilito la riforma Amato del 1992 con l’applicazione del calcolo retributivo a tutta la vita lavorativa. È questo, in fondo, il sistema prevalente in Europa.
Da noi, nel 1995, si volle adottare, nel regime obbligatorio, un modello di “capitalizzazione simulata” coerente a suo modo con l’istituzione dei fondi pensione e delle altre forme di previdenza complementare a cui veniva affidata, appunto, una funzione compensativa strategica nel quadro della riforma complessiva. Oggi, come abbiamo già ricordato, anche questo settore corre dei rischi seri che ne aggravano la vita stentata condotta fin dalla sua introduzione nell’ordinamento previdenziale.