Si chiama Joint&Welding, ma è un’azienda tutta italiana, specializzata in semilavorati in acciaio inox, sede a Sedico, in provincia di Belluno, una trentina di dipendenti. E’ balzata agli oneri delle cronache per un inedito conflitto sindacale. L’azienda ha chiesto ai dipendenti di lavorare gratis mezz’ora in più alla settimana di fronte alle difficoltà del momento, all’accentuata concorrenza estera, alla necessità di rispondere ad alcune commesse che richiedevano tempi di consegna ben definiti.
Il sindacato, in particolare la Fiom-Cgil, ha detto “no”. Una richiesta di questo tipo violerebbe patti e contratti e soprattutto… escluderebbe il sindacato. La Cisl, come racconta Dario di Vico sul Corriere della Sera, è stata molto più pragmatica: “Sono tentativi disperati, spesso ai limiti della decenza sindacale e riflettono due fenomeni. L’angoscia per il rischio di veder morire le imprese e l’attaccamento degli operai all’azienda”…. Ma non bisogna dimenticare la “complicità” che in Veneto lega padroni e dipendenti e “alla fine della crisi ci accorgeremo che questa complicità farà la differenza, si rivelerà una risorsa”.
La parola “complicità” offre subito l’idea di qualcosa di illegale, di un sotterfugio, di una scappatoia per uscire dalle regole. Tutto sembra assumere così l’aspetto di una anomalia che va considerata al di fuori dei normali rapporti sociali e di lavoro. E se invece la vicenda di Sedico fosse un esempio di civiltà? Non deve forse essere considerato positivo infatti “l’attaccamento degli operai all’azienda”? Se è vero, come è vero, che nel 2012 hanno chiuso migliaia di imprese e vi sono stati più di un milione di licenziamenti come non sentirsi vicini all’angoscia di chi rischia di vedere morire la propria impresa.
E tuttavia mentre la realtà ci mette di fronte ad una crisi ormai strutturale che richiederebbe una grande svolta nei giudizi e nei comportamenti, il sindacato sembra continuare a voler difendere, insieme al proprio potere, anche le logiche astratte e ormai antistoriche, ottocentesche, del conflitto tra capitale e lavoro.
Come ha sottolineato in un recente convegno (Inaz, Milano, 17 giugno, “Idee per far ripartire il lavoro”) l’economista Marco Vitale “il primo e più grande buco nero è nella cultura della sinistra e della componente più importante del pensiero sindacale. Questa cultura è ancora agganciata alla visione dei luoghi di lavoro come puri luoghi di conflitto tra capitale e lavoro, visione che in Germania e in Giappone, per vie diverse, è stata superata verso la metà degli anni 50 del 900 cioè quasi 70 anni fa. Si è allora presa coscienza, infatti, che fra capitale e lavoro esiste un terzo soggetto che ha una sua precisa autonomia e funzione: l’impresa”.
E in Italia storicamente la forza dell’impresa famigliare, come sono gran parte delle piccole e medie imprese, è proprio nella convinta, aperta e responsabile partecipazione di tutti coloro che vi operano. Non è più possibile applicare alle imprese che continuano a tenere alto, nonostante tutto, il nome e il valore del “made in Italy” i polverosi paradigmi marxiani buoni forse a interpretare i primi anni della rivoluzione industriale.
Ancora di più in questa fase le aziende devono fare i conti con la globalizzazione, con le difficoltà del contesto competitivo in cui si trovano ad operare, con la necessità di praticare una sempre più forte innovazione all’interno e nei rapporti con il mondo esterno. Il sindacato ha avuto un ruolo fondamentale in passato nella difesa dei diritti, ma in molte sue componenti sembra non riuscire ora a cambiare passo di fronte alle nuove dimensioni economiche e sociali.
E se è vero che ci sono (pochi) imprenditori d’avventura e (qualcuno in più) manager cinici e incapaci, è altrettanto vero che nella maggior parte delle imprese familiari padroni e dipendenti, pur nei diversi ruoli, si sentono legati a una responsabilità comune. In fondo anche in Italia è diffusa la partecipazione alla tedesca… ma non si può dire, non è politicamente corretto. Allora è bene che in un piccolo paese del bellunese padroni e operai abbiano il coraggio di rompere gli schemi e di rispondere in modo nuovo a problemi nuovi.