Non è facile trasformare delle biografie in romanzi, mantenendo la fedeltà allo sviluppo storico degli eventi e insieme il tono e lo stile avvincente di un racconto che possa appassionare. Più difficile ancora se le biografie sono quelle di uomini di scienza, dove oltre al riferimento storico ad avvenimenti realmente accaduti è necessaria una correttezza e precisione nelle citazioni e descrizioni scientifiche.
Ci ha provato, con esito abbastanza soddisfacente, Stuart Clark, fisico britannico con un dottorato in astrofisica, una delle “penne” più brillanti della comunicazione scientifica: cura, tra gli altri, la stesura dei testi per l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e collabora con la BBC. E ci ha provato partendo dal punto più alto e impegnativo, cioè dal massimo scienziato inglese che, insieme al nostro Galileo, ha posto le basi (anche se non a partire proprio da zero) per l’imponente sviluppo della fisica e del metodo sperimentale in generale: ci riferiamo a Isaac Newton. Il romanzo Il sensorio di Dio (Dedalo) deve il suo titolo a un’espressione newtoniana che ci fa subito immergere nel clima infuocato delle dispute scientifiche – filosofiche – teologiche non rare nella storia culturale europea.
Il “sensorio” di Dio – in una parte almeno del pensiero newtoniano – sarebbe la natura stessa tenuta sotto controllo continuamente dal Creatore, il quale non si limiterebbe ad aver avviato il grande meccanismo dell’universo una volta per tutte ma continuerebbe a intervenire. La posizione dello scienziato inglese è in verità più sfumata ma per i suoi avversari, in primis Gottfried Leibniz, pensare così significava avere un’idea riduttiva di Dio, come se il Creatore avesse bisogno di occhi e orecchi per percepire la sua creazione e come se fosse un orologiaio un po’ scadente, che doveva ogni tanto aggiustare i pezzi del suo marchingegno.
Clark mette in bocca a Newton un’arringa difensiva immaginandolo a colloquio con la futura regina Carolina – moglie di re Giorgio II di Hannover e amica di Leibniz – alla quale lo scienziato fa notare di aver scritto “come se fossimo il sensorio di Dio”, usando un’analogia e non facendo un’affermazione definitiva. Le argomentazioni del grande fisico sono ben articolate e colpiscono passaggi come questo: «Il nostro senso di identità e la nostra percezione intellettiva non sono carne e sangue: sono il dono che Dio ci ha fatto, sono ciò che ci distingue dagli animali e ci fornisce un legame essenziale col Creatore. Facendo uso del Suo dono, possiamo riconoscerLo in tutto ciò che ci circonda».
Da qui però è facile scivolare sul versante scientista, dove è la scienza a dire l’ultima parola sulla realtà, anche su Dio. O, che poi è lo stesso, nella posizione di chi riconosce la presenza di Dio ma solo laddove l’intelligenza umana non arriva, nelle lacune della nostra comprensione scientifica della realtà: «Ciò che non sono in grado di capire deve essere volontà di Dio».
La querelle non si chiude nel confronto con Carolina e resterà lo sfondo anche della controversia con Leibniz, che è stata ben di più della sola contesa per la priorità dell’invenzione del calcolo infinitesimale. A ben guardare il dibattito non si è ancora chiuso: tanti pronunciamenti di scienziati contemporanei non ostili alla religione fanno riferimento al God of the gaps, di cui si riconosce l’esistenza ma che è destinato a eclissarsi via via che la scienza arriva a colmare le lacune.
Il bello di questo romanzo però non è solo legato alla capacità di rendere appetibile un dibattito culturale di quel livello. È anche nell’ambientazione della vicenda newtoniana e nella resa drammatica di quelli che potevano essere solo dei frammenti biografici. Ne esce uno spaccato della vita scientifica, un grande affresco dove si intrecciano le vicende totalmente umane di tanti protagonisti i cui nomi sono poco noti o sono associati, per chi ha fatto studi scientifici, unicamente ad alcune formule o fenomeni naturali.
Così Clark ci fa incontrare Robert Hooke, con la sua testarda opposizione all’idea che la forza di gravità possa agire “a distanza” e con la sua incrollabile fiducia in un metodo sperimentale forse un po’ troppo confuso con l’empirismo: «Noi crediamo solo in ciò che possiamo misurare». Ci fa incontrare Edmund Halley, quello della celebre cometa, con la sua attività di intermediario oscillante tra quei giganti del pensiero. E ancora Christopher Wren, architetto, John Flamsteed, astronomo reale, promotore della realizzazione dell’Osservatorio di Greenwich e fiero (ma perdente) oppositore di Newton. Tutti personaggi che gravitano (è il caso di dirlo) attorno alla Royal Society londinese e che vengono presentati col loro fardello di limiti, di debolezze umane, di storie non sempre edificanti.
Lo stesso Newton viene scalzato dal piedestallo sul quale è solitamente collocato, per raccontarne, oltre alla genialità soprattutto giovanile, la spregiudicatezza, la presunzione e anche le derive culturali che lo hanno condotto, per alcuni anni, su strade a dir poco ambigue. Pochi sanno della sua adesione all’arianesimo, tenuta nascosta ma forse mai intimamente rinnegata. E ancor meno sono coloro che immaginano l’autore della legge di gravitazione universale e della legge fondamentale della dinamica applicarsi con dedizione totale per un ventennio all’alchimia, convinto di arrivare a controllare le trasmutazioni della materia e del potere che avrebbe dato la scoperta della pietra filosofale.
Una lettura avvincente, quella del libro di Clark; che lascia aperti molti interrogativi e innesca il desiderio di approfondirli sui testi, più ponderosi, degli storici della scienza. Come sarà capitato a molti almeno in due casi per certi aspetti analoghi: dopo aver letto I sonnambuli di Arthur Koestler, per l’aspetto storico; dopo aver letto Jurassic Park o altri romanzi di Michael Crichton, per quello scientifico.