Passa anche l’articolo 2 della riforma del Senato, il cuore della nuova architettura istituzionale, quello che trasforma Palazzo Madama in una Camera delle regioni, quello che per mesi era sembrato lo scoglio più difficile da superare perché sommerso da emendamenti che potevano seppellirlo. Invece è filato tutto liscio. O quasi. Perché a guardare i numeri della votazione Matteo Renzi non dovrebbe stare troppo sereno.
La maggioranza assoluta al Senato è di 161 voti. Il governo ne ha raccolti 160 sul complesso dell’articolo 2. Nel precedente scrutinio sull’emendamento Finocchiaro (il quale stabilisce che i futuri senatori saranno eletti dai consigli regionali tra i propri membri «in conformità alle scelte degli elettori») i voti raccolti dalla maggioranza erano stati 169. L’altro giorno, sull’articolo 1, il raccolto era stato ancora più abbondante: 177. E nella votazione conclusiva sono mancati all’appello 7 senatori centristi, tra cui Giovanardi, Colucci e Azzollini, tra i più critici con la linea di Alfano giudicata troppo filo-renziana. È vero che al Senato l’assenza fa abbassare il quorum e dunque non si tratta di un danno grave per la maggioranza; resta tuttavia il segnale lanciato a Renzi e Alfano nonostante che il capogruppo di Ap, Renato Schifani, si sia affrettato a giustificare tutte le assenze. I messaggi in codice si lanciano proprio quando non possono nuocere troppo.
Il pallottoliere è noioso ma fa capire alcune cose. È assodato che i franchi tiratori non provengono dal Pd: il capogruppo Zanda ha fatto pronunciare la dichiarazione di voto a due esponenti della minoranza interna. Dunque la fronda proviene dai centristi, cioè Area popolare e Ala di Verdini. Il primo dato è che, già ora, di Verdini il Pd di Renzi non può fare a meno: qualche giorno fa era filtrata la voce che il governo, in un eccesso di autostima, avesse chiesto all’ex coordinatore di Forza Italia di non eccedere con i voti pro riforme. Invece Verdini è determinante e il suo credito verso Renzi cresce di scrutinio in scrutinio.
Il secondo elemento, conseguenza del primo, è che il Pd si espone pericolosamente ai «capricci» centristi. La ritrovata compattezza interna nei democratici è messa alla prova dall’umore altalenante dei due gruppi di fuoriusciti da Forza Italia. Ma non è detto che a Renzi tutto ciò dia fastidio. Finora ha usato Verdini come spauracchio per avere un Pd unito, e continuerà con questa strategia. Ma — e questo è il terzo elemento del voto di ieri — l’appoggio di Verdini potrebbe diventare un boomerang, perché la minoranza interna al Pd e lo stesso Ncd non lo sopportano.
Ieri su Repubblica il premier ha difeso la figura di Verdini («non è il mostro di Lochness», new entry nel bestiario della politica italiana già densa di delfini, trote, conigli mannari, canguri, falchi, colombe e pitonesse) mentre non ha evitato stoccate ai bersaniani («qualcuno dei nostri non ha ancora elaborato il lutto della sconfitta al congresso dopo averli vinti quasi tutti»).
Renzi ha poi cercato di tranquillizzare la sinistra interna che teme di ritrovarsi l’ex sbrogliamatasse di Berlusconi come alleato alle prossime elezioni: Verdini vota le riforme, non la fiducia, quindi non fa parte della maggioranza. Quello a cui punta Renzi, a suo dire, non è imbarcare i naufraghi del berlusconismo ma mantenere il partito unito.
Dopo 20 anni passati a combattere Berlusconi, sui «duri e puri» della sinistra si abbatte una nemesi tremenda: un segretario premier che ha abolito l’articolo 18 e vuole tagliare le tasse sulla casa, e due alleati centristi eletti con i voti di Berlusconi assolutamente indispensabili. Uno dei quali, Verdini, particolarmente aggressivo al punto che si ipotizza la sua conquista del Ncd. Il quale, non a caso, lancia segnali di malessere con le assenze strategiche di qualche «big».