La legge di stabilità per il 2016, come tutte quelle che l’hanno preceduta, è un insieme di interventi e misure necessariamente eterogenee che toccano, con segno differente, una molteplicità di aree di intervento pubblico. I giudizi che si possono dare sono in conseguenza molto differenti da misura a misura e coprono quasi per intero lo spettro delle valutazioni possibili: alcuni interventi sono utili e significativi, altri sono utili ma non prioritari, altri ancora vanno nella giusta direzione ma non rappresentano lo strumento migliore per il fine dichiarato. Questo per quanto riguarda i provvedimenti con valutazione comunque positiva. A essi se ne affiancano tuttavia altri più discutibili nelle finalità perseguite o nei mezzi messi in campo o in entrambi. E qualcuno appare del tutto inutile.
Il compito più complesso è tuttavia quello di dare un giudizio d’insieme. Quali sono gli aspetti migliori dell’intera manovra? E quelli peggiori? Iniziamo dai secondi: dire che il difetto più grande è che non si vede il disegno generale. La legge annuale è infatti la tappa di un percorso molto più lungo che, teoricamente per un quinquennio, viene realizzato da un medesimo governo. La singola tappa deve essere coerente con la meta finale che si vuole raggiungere, rappresentare il proseguimento coerente della tappa precedente e lasciar intravvedere le tappe successive. Qui il percorso non si vede: non è evidentemente una riforma sistematica della spesa pubblica, alla quale si è rinunciato con il ritorno di Cottarelli al Fmi, ma non sembra essere neppure una riforma sistematica del prelievo fiscale, che quel poco di crescita economica che si comincia a intravvedere rende comunque più agevole avviare.
Immaginiamo la finanza pubblica come due grandi palazzi: quello della spesa e quello delle entrate. Se noi fossimo in Germania o in Scandinavia probabilmente saremmo tutti d’accordo nel dire che vanno benissimo come sono, che necessitano di pochissimi miglioramenti e che basta programmare per essi le consuete manutenzioni ordinarie. In tal caso tuttavia la legge non sarebbe “di stabilità”. Il nome stesso ci suggerisce che i due palazzi hanno bisogno di essere “stabilizzati” attraverso manutenzioni straordinarie e interventi strutturali che possano anche arrivare a rifacimenti estesi. Tuttavia al restauro del palazzo della spesa, che risponde al nome inglese di “spending review” abbiamo esplicitamente rinunciato. Dunque occorre guardare al palazzo delle entrate: il suo restauro esteso dovrebbe chiamarsi “riforma fiscale”, ma nessun progetto di questo tipo è mai stato elaborato e neppure immaginato negli ultimi lustri. Dall’ultimo restauro esteso, risalente agli anni ‘70, non si è fatto altro che aggiungere, inseguendo le ben maggiori dimensioni del palazzo della spesa, stanze, mansarde, mezzanini, cantine, sotterranei, ampliamenti in tutte le direzioni, senza nessuna verifica di sostenibilità e coerenza. Oggi il palazzo della tassazione è talmente complicato che neanche i progettisti che si sono susseguiti al suo ampliamento ne conoscono più le mappe. Sono tutti “lost in taxation”. Figuriamoci i contribuenti obbligati ad abitarvi.
Chiarito che la legge di “stabilità” al più stabilizza i conti annuali ma nulla può riguardo alla stabilizzazione strutturale dei palazzi della spesa e delle tasse vediamo che cosa più ci piace e che cosa meno della versione per il 2016 presentata dal primo ministro con le consuete slide. Il podio del primo versante vede:
1) Il disinnesco delle “clausole di salvaguardia”, vere e proprie mine vaganti lasciate in eredità dalle precedenti manovre di finanza pubblica.
2) L’assegnazione di nuove risorse al “Fondo povertà”: 600 milioni di maggiorazione che porta la dotazione totale a 1,4 miliardi. In questo caso mi piacerebbe tuttavia sapere di più su come questo fondo si traduce effettivamente in provvedimenti per chi è più in difficoltà.
3) La possibilità di part-time per i lavoratori prossimi all’età della pensione, gli “over 63”, rimasti impigliati nella riforma Fornero. Questo provvedimento è positivo, ma comunque molto distante da quello ottimale: la possibilità di scegliere, ovviamente al di sopra di una certa età anagrafica, quando andare in pensione accettando una decurtazione su basi di equivalenza attuariale del trattamento. Esso, nonostante sia equo e corretto, non è evidentemente fattibile per ragioni di costo perché non si ha il coraggio di intervenire sui trattamenti di maggiore importo che non trovano giustificazione nei contributi sociali effettivamente versati.
A questo punto i lettori saranno stupiti nel non vedere nell’elenco gli sgravi fiscali contenuti nel provvedimento. La riduzione della pressione fiscale è utile alla ripresa economica e doverosa, dati gli alti livelli cui è pervenuta soprattutto dopo le molteplici manovre dell’anno 2011, tuttavia le forme scelte dal governo son ben distanti da quelle ottimali. Eccole in ordine crescente di disapprovazione:
1) L’aumento del livello di reddito non imponibile dei pensionati, la cosiddetta “no tax area”, è in realtà l’unico pienamente approvabile, tuttavia non sarebbe stato opportuno aumentare (anche) le detrazioni d’imposta per i carichi familiari relativi ai minori, tuttora a livelli derisori? Ragioni di equità lo impongono, ma non solo: le famiglie con bimbi a carico hanno per forza di cose una maggiore propensione al consumo, dunque gli effetti sulla domanda sarebbero risultati favorevoli.
2) Il super-ammortamento 2016, pari al 140% della quota relativa all’ammortamento annuo degli investimenti che saranno effettuati nell’esercizio va nella giusta direzione, tuttavia ciò che occorre stimolare sono gli investimenti netti, non quelli lordi. Sarebbe stato pertanto più opportuno concentrare il beneficio solo sull’incremento dello stock di capitale fisico delle imprese, escludendo gli investimenti necessari per conservarne il livello.
3) La riduzione dell’aliquota Ires, che non si sa bene da quale anno decorrerà, non appare condivisibile pur essendo evidente la necessità di un alleggerimento della tassazione delle imprese: perché non si è scelto al suo posto di ridurre l’Irap, pagata anche dalle imprese che sono in perdita, oppure il cuneo fiscale sul lavoro?
4) La soppressione della tassazione sulla prima casa era auspicabile, ma non su tutte le prime case, solo su quelle (in base alle dimensioni, non alle rendite catastali) congrue rispetto alle dimensioni familiari: il monolocale per il single, il bilocale per la coppia e così via. Si poteva ottenere esentando un numero di vani proporzionali al numero di componenti della famiglia. Invece esentando tutte le case si realizza un provvedimento profondamente iniquo e fortemente regressivo, in barba alla Costituzione che prescrive la progressività. Non solo, ma esso è anche distorsivo in quanto crea incentivo a comportamenti opportunistici: infatti le famiglie benestanti che posseggono diverse case distribuiranno le residenze dei loro membri in modo da esentarle quanto più possibile…
5) La riscossione del canone Rai attraverso la bolletta elettrica appare un espediente per accrescere le risorse economiche in favore della riformata, ma non per questo automaticamente meritevole, TV di Stato: dato che lo sconticino in favore dei cittadini che pagano il canone è solo dell’11,5% ma l’evasione è un multiplo di tale valore, la TV di Stato si ritroverà con tanti bei soldini in più da spendere. Non sarebbe stato meglio lasciarli spendere in altro modo ai cittadini stessi?
Ciò che più sorprende tuttavia nel provvedimento è la pressoché totale scomparsa della spending review. I tagli alla spesa di cui è rimasta traccia riguardano una riduzione lineare nella dotazione relativa agli acquisti dei ministeri e un minor incremento del fondo di finanziamento del sistema sanitario. Tuttavia, da un lato, i tagli lineari rappresentano l’esatta antitesi di una razionale revisione della spesa e, dall’altro, il fatto che la spesa sanitaria attuale si converta in prestazioni di livello molto diverso nelle regioni italiane non giustifica tagli al settore: essi sono evidentemente inopportuni per le regioni virtuose, mentre nelle regioni problematiche una corretta revisione della spesa dovrebbe essere integralmente indirizzata al miglioramento delle prestazioni in favore dei cittadini, non al risparmio di soldi in favore di via XX Settembre, sede del Mef.
Alla luce anche del nuovo provvedimento di finanza pubblica la spending review appare sempre più come una tela di Penelope, tessuta nottetempo per poi essere disfatta alla luce del sole dai Proci della spesa pubblica. E i cittadini di Itaca sembrano sostenere più i Proci che Penelope, mentre non vi è alcun Ulisse in procinto di rientrare in patria per rimettere le cose a posto.