L’operazione del Pd per riprendere il controllo delle azioni di Ignazio Marino ha dato qualche frutto. Il sindaco di Roma aveva annunciato dimissioni che però avrebbe potuto ritirare entro 20 giorni; aveva minacciato di ripresentarsi con una lista civica per spaccare la sinistra; aveva minacciato rivelazioni clamorose con tanto di appunti e mail conservate come se si fosse cautelato da tempo verso il partito che l’ha issato al Campidoglio.
Il Pd insomma stava ottenendo dalle dimissioni di Marino l’esatto opposto di ciò che si prefiggeva: voleva evitare una lunga agonia arrivando all’inevitabile (cioè le elezioni anticipate a Roma) con qualche possibilità residua. Invece l’impressione che risulta dai pizzini di Marino è che il partito abbia ancora molto marcio da nascondere (oltre a ciò che finora è emerso dall’inchiesta Mafia capitale), e che imporre le dimissioni al sindaco servisse soltanto a distogliere l’attenzione. Le dichiarazioni più emblematiche erano quelle secondo cui «dopo di me al Campidoglio tornerà la mafia»: non è proprio il migliore augurio al partito che l’ha candidato, eletto e sostenuto a lungo.
Ieri il sindaco che voleva vendere cara la pelle, arrivando al punto da far balenare l’ipotesi di una conta in consiglio comunale, è sceso a miti consigli. Davanti alla prospettiva di un voto di sfiducia della sua stessa maggioranza, ha confermato che lunedì formalizzerà le dimissioni e nei successivi 20 giorni esse diventeranno irrevocabili: quindi nessun ripensamento. Ha fatto marcia indietro su tutti i retroscena descritti dai giornali. «La nostra priorità è non cancellare, al di là delle vicende politiche, il lavoro impostato in questi due anni», ha detto.
Insomma, sembra che Marino abbia virato deponendo l’ostinazione con cui ha tentato di opporsi all’ultimatum del Pd. Ma gli interrogativi restano, e pesano su un Pd che sembra sempre più in difficoltà. L’accanimento verso l’ex sindaco risulta inversamente proporzionale alla possibilità di liberarsene sul serio. Che cosa c’è scritto nei dossier accumulati da Marino in questi anni? Perché li ha tenuti nel cassetto senza denunciare le ipotesi di reato (sempre che ve ne siano)? Voleva utilizzarli come una «polizza vita»?
E perché Renzi ha improvvisamente cambiato idea sul sindaco «marziano»? Fino a pochi giorni fa il premier voleva che egli restasse al Campidoglio per altri quattro mesi, in modo da giungere al voto anticipato fra un anno. Ora invece si voterà in primavera assieme a Milano, Bologna, Torino e Napoli, e la sinistra potrebbe perdere sia il capoluogo lombardo sia la capitale.
Ormai Marino è un parafulmine su cui il Pd scarica ogni contraddizione interna. Pesanti le parole scritte su Facebook da Matteo Orfini, commissario del Pd romano per nulla renziano: «Una infinita serie di errori ha infinitamente compromesso l’autorevolezza del sindaco verso la città». In poche ore però il post ha ricevuto una valanga di contestazioni accanto a pochi apprezzamenti. La base elettorale voleva da Orfini una difesa più convinta del proprio rappresentante, senza cedere alle logiche del consenso elettorale.
Anche da dimissionario (o quasi) Ignazio Marino resta dunque un problema per il Pd, e non solo a Roma. Un partito sfibrato dall’inchiesta Mafia capitale, lacerato dai conflitti interni, a corto di credibilità, che ora deve gestire un appuntamento come il Giubileo e non ha alternative pronte da indicare per la successione. Non è nemmeno sicuro che vengano ripetute le primarie, che in questo clima potrebbero trasformarsi in un ulteriore terreno avvelenato. Meglio prendersela con le vacanze ai Caraibi di Marino, la superficialità nel caso Casamonica, la strigliata di papa Francesco, e aggiungere una bella dose di indignazione per gli scontrini dei ristoranti.